Ambrosia

Ambrosia

Cibo degli  dei, come il nettare ne era la bevanda; conservava loro l’immortalità e l’eterna giovinezza. Con tale nome Omero chiama anche un unguento divino che aveva  il potere di risanare le ferite. L’ambrosia si trovava nell’orto delle  Esperidi, ed erano le colombe  a portarla in volo agli dei.  Per alcuni autori, come Alcamane  e Saffo, l’ambrosia, era bevanda e il nettare invece cibo. 

Karl Kerényi - Dioniso


Karl Kerényi
Dioniso
Adelphi

Si può dire che questo libro — la più affascinante e profonda raffigurazione del mondo di Dioniso — abbia accompagnato tutta la lunga vita di studioso di Kerényi, compiendosi pochi anni prima della sua morte. Già nel 1935, nei suoi Pensieri su Dioniso, Kerényi scriveva: ‘Hanno i Greci mai pensato sul loro Dioniso pensieri come quelli di Otto o come quelli qui espressi? Certo per loro era più facile. Poiché essi possedevano nel mito e nell’immagine, nella visione e nella rammemorazione del culto l’essenza di Dioniso nella sua piena espressione». Ed è appunto l’intenzione che guida il libro: benché ‘imperfetti  rispetto alla conoscenza mitica, gli strumenti del pensiero debbono essere usati col massimo rigore, perché sono per noi l’unica via d’ao cesso a queste realtà che li sovrastano.
Questo fu un po’ sempre l’animus di Kerényi come studioso — e si può dire che mai come in Dioniso, che è quasi il coronamento di tutta la sua opera, esso palpabilmente appia. Molte sono le novità che affioreranno nel quadro da lui delineato — e in particolare la rivendicazione, clamorosamente confermata dai ritrovamenti archeologici e dalle decifrazioni più recenti, dell’origine cretese di Dioniso. Ma imponente è innanzitutto l’insieme, che accompagna le metamorfosi del dio in ogni dettaglio del culto, del mito, della poesia e dell’esperienza quotidiana.


Karl Kerényi (1897-1973) è autore di fondamentali studi sulta religione del mondo classico; ricordiamo in particolare Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia (1942, in collaborazione con C.C.Jung), Miti e misteri (1950) e Gli Dei e gli Eroi della Grecia (1951-1958). Di Kerényi Adelphi ha in preparazione The antike Religion (1940).

Circe

Circe

famosa maga, in origine probabilmente una dea della morte, se non addirittura un’altra personificazione di Ecate che, secondo- Diodoro Siculo, ne sarebbe stata la madre. Comunemente, però, Circe è ritenuta figlia di Elio e di Perse e sorella di Eeta, re di Colchide. Il regno di Circe era l’isola di Eèa (« lamento »), l’isola del crepuscolo; che fa appunto ritenere Circe una dea della morte. 

Circe appare in due cicli mitologici; una volta nella storia di Giasone e Medea e degli Argonauti, dove per altro ha una parte marginale, e l’altra volta nell’Odissea, dove assume ben altro rilievo. Sennonchè, mentre la Circe degli Argonauti, racconto molto più antico, è per così dire la Circe originale, Omero nell’Odissea ne ha liberamente rielaborata la figura sovrapponendola, come molti ritengono, alla dea italica Marica . Anche l’isola di Eèa non può essere la medesima nelle due storie: la prima dev’essere collocata nell’alto Adriatico (Lussino?), l’Eèa omerica invece nel basso Tirreno; forse si tratta del promontorio di Monte Circeo. 

Scampato con un sol naviglio alla furia dei Lestrigoni, Ulisse approdò all’isola di Eèa. Estratti a sorte, Euriloco e ventidue compagni si misero ad esplorare il paese, mentre Ulisse e gli altri rimanevano a guardia della nave. Giunti nei pressi del palazzo di Circe, Euriloco e i suoi si imbatterono in lupi e leoni che però si comportavano amichevolmente verso i nuovi arrivati; in effetti erano uomini tramutati dai sortilegi di Circe. Questa invitò i messi di Ulisse a pranzo, ma appena ebbero assaggiato un boccone, si mutarono in porci. Si salvò soltanto Euriloco che, diffidente, non era entrato nel palazzo di Circe. Visto quanto era successo ai compagni, ritornò di corsa da Ulisse. Questi prese la spada e si precipitò verso la magione di Circe per vendicare i suoi. Per la strada gli si fece incontro il dio Ermes che gli offrì un amuleto contro gli incantesimi di Circe: Moli, un fiore bianco profumato dalle radici nere, che soltanto gli dèi riuscivano a trovare. 

Grazie a questa protezione, il sortilegio di Circe non funzionò su Ulisse che, anzi, la minacciò con la spada. « Risparmiami », implorò la maga, «dividerai con me il talamo e il regno! ». Ma Ulisse, non fidandosi ancora, pretese e ottenne da Circe un solenne giuramento che mai più avrebbe ordito qualcosa di losco contro di lui. E in più, rifiutandosi di soddisfare le brame amorose della maga, ottenne anche la ritrasformazione dei suoi uomini. Dopodichè tutti quanti per un anno intero stettero ad Eèa facendo la dolce vita. Durante quell’anno Circe regalò a Ulisse anche un figlio, Telégono (o Telagòne), che molti anni più tardi avrebbe ucciso involontariamente Ulisse. Ma forse gli anni erano anche di più, perchè altri riferiscono che oltre a Telégono, Circe avrebbe reso Ulisse padre anche di Agrio e Latino. 

Ad ogni modo, quando Ulisse espresse il desiderio di ripartire, Circe lo lasciò andare senza troppe storie. Lo consigliò di scendere prima agli inferi per consultarvi l’anima di Tiresia sui suoi futuri destini e, quando dopo quella spedizione Ulisse ritornò brevemente ad Eèa, gli diede anche buoni consigli per il viaggio. Si racconta che Circe, dopo la morte di Ulisse per mano di Telegono, sposò Telemaco, l’altro figlio di Ulisse avuto da Penelope, mentre Telegono si prese in moglie la matrigna Penelope.

Una volta Circe si innamorò di  Glauco; non ne fu corrisposta, perchè egli amava Scilla. Per gelosia, Circe cambiò la rivale in un mostro marino, dopo d’aver avvelenato la fonte presso la quale i due amanti erano abituati a ritrovarsi insieme. 

Cipselo

Cipselo

Figlio di Eezione e di Labda la quale lo nascose in una cassa — che, in greco,  suona appunto capsule   - per sottrarlo alle furie  orgiastiche delle Mènadi  o   Baccanti. 
  
Lo tesso   nome è attribuito che fu     ad un re d’Arcadia,  padre di Mèrope.  

In limine: la necessaria Afrodite

IN LIMINE: LA NECESSARIA AFRODITE 

“La sfera d’influenza di Afrodite è data nel modo più diretto e tangibile: la soddisfazione delle gioie del sesso. “
WALTER BURKERT 

Nata dai vortici schiumosi dell’acqua marina e dallo sperma volante del Cielo, da una dolorosa e sanguinosa irruenza troncata dalla falce di Crono, ma che sfiniva in estasi, nell’equorea deriva egea, sulla rotta che porta da Citera a Cipro (sino al verdeggiante patio chiuso dai sacri recinti di Pafo), era la dea — l’unica vera dea — di Saffo. Lancinante bellezza che spezza il cuore e, insieme, gioia che spesso si involve in tormento: Afrodite. 
Colei che senza requie smuove il bene e il male del tutto, che folgora con l’occhio bruno e trafigge l’opaca inconsistenza quotidiana — l’insipiente apatia o il torpido rituale burocratico/esistenziale — di ogni vita (se ‘vita “, senza lei, può dirsi) vegetale, animale, umana: per sostanziarla di sé. Per accendervi il fuoco di un significato. Che resta tale anche quando si è fatto soltanto memoria estrema di sepolta brace; o che è già fiamma timida quando, ancora, in un ‘indistinta attesa, appena se ne avverte il primo, inquieto crepitare. 
Era (lo è ancora? lo sarà per sempre, sino al giorno in cui il friabile sempre degli uomini durerà?) ciò che dà il solo possibile senso all’insensata guerra e alla precaria pace. Ciò che ad uso di Omero innescò le trame corrusche e le morbide pause della spedizione distruzione e strage di Ilio/Troia. Che inventò l’abbraccio vincolante di Circe, il sogguardare oblioso di Calipso, il trepidare urgente di Nausicaa. Nerbo della vendetta di Medea e della ferocia di Clitemnestra, amaro sale del la pazienza di Penelope e del lutto di Andromaca, pruriginosa spezia del delirio di Fedra o del lamento di Cassandra. Fulgore invitto di superba cagna: che intrise di charme la forma per fetta di Elena, sposa sgualdrina. 
Era Afrodite insomma ciò che illuminando con la realtà sensibile del mito la transeunte irrealtà della nostra vita, offrendole effimero ma sanguigno e storico corpo, per grazia e disgrazia della ragazza Saffo — finché crescendo sino a farsi donna e quindi consumandosi, resse al suo esigente e divino, troppo divino diktat —, ne alimentò i deliqui dolcissimi e le esaltazioni stordite, come il più solitario e avvinghiante strazio. Mescolandovi ira, invidia e gelosia: al punto che su tale smagliante e sconvolgente cocktail, finì per spumeggiare (e parve miracolosa, poiché era la prima volta che si udiva) l’iridescenza dolceamara del canto: della poesia che dice, sincera mente, io... 
Si mostrava in terra la lirica che solo il subdolo forcipe di Afrodite avrebbe saputo e potuto trarre alla luce, simulando in termini quasi popolareschi un parto ovvio e indolore, e che indolore continua a parere a chi insiste a credere, con candida supeficialità o asessuato studio, che il midollare amplesso d’amore e morte sia un’ebbra e immatura (o decadente e manieristica) fantasticheria romantica. Era invece la lirica (di sangue nero e lampi di diamante) che è in tutti e di tutti: servita e disservita nel calice del desiderio, con alterna crudeltà e ammiccante compiacenza, dal barman/folletto, detto da Esiodo “bellissimo “.  Eros: di cui sappiamo l’arte di trasformista mistico o triviale, di travestito dai paludamenti carnascialeschi dello snobismo intellettuale o dell’illetterata svenevolezza. Reticente o espanso pornografo, mandolinista o vampiro, menèstrello o satiro. 
Eros: che era stato ben altro. Ma la cui astratta forza, la cui muta potenza e virtù di furiosa congiunzione, si ridusse presto a casalingo strumento dell’eternamente giovanissima Signora, Afrodite: di Cipride o Citerea, santa e insieme tenera mente scandalosa — volage e imperiosa — Signora..Egli in verità stava all’origine del mondo formato, dell’universo Cosmo: ma dopo ch ‘ebbe fecondato per impulso proprio il vuoto Caos, primordiale e infinito, e accoppiato l’Etere chiaro al fosco Erebo, la Notte al Giorno, il Cielo stellato alla fertile Terra, ormai non fu più (non è più) che l’alato capriccio, il valletto/trastullo, il servo/fanciullo (ora succube ora tracotante), la maliziosa e indefettibile scorta: al seguito e ai servizio di Afrodite. Cosa soltanto sua. 
Eros che trascolora: che è maschio o femmina o androgino, a suo gusto. O giovane o vecchio. Che muta maschera. Che al ghigno beffardo fa succedere il riso soave del più seducente incanto: rosa e spina, piuma sdolcinata e turbine losco. Efebo o virago, ninfa o tritone, bimba chiacchierina o adusto atleta, danzatrice procace o pudibondo ipocrita: regolarmente a cavaliere d’ilari turbamenti e indicibili disastri. Fugace e livida faccia di ogni triste mezzanotte, o meridiana febbre, felicità solare. Ma comunque asservito a Afrodite, suo schiavo astuto e intemperante complice. 
Il garbo che amiamo e che ci vuole (che ci dovrebbe sempre fare compagnia, riteniamo) per vivere (e convivere) decentemente, non ci impedisca mai di dire la banale verità, una fra le poche che, se onesti, dovremmo sapere: di dire che la vita, tra nascita e morte, è sesso. Di dire che è Afrodite. Che aphrodizéin (dal tempo in cui il tempo si è fatto consapevole e deperibile tempo, allo sguardo impietoso della neonata intelligenza greca) vuol dire ‘far l’amore”; che gli aphrodisia non sono altro che i giochi, i viluppi, gli intrecci,  gli amabili e forti sfoghi dei corpi in amore. Le “carezze profonde”  di Saffo: il cui oggetto più o meno diverso non ha rilievo in sé, poiché rilievo esse hanno già di per sé.
Né il medesimo garbo ci vieti di aggiungere che Afrodite non è compiutamente se stessa, se non incoronata e accompagnata dal proprio eccitante (“afrodisiaco”) corteggio: Eros in testa. E poi Himeros (o “brama”), suo congiurato fratello, giocoliere di voglie nascenti o rinascenti. E quindi le ragazze della grazia (della Chàris), le Càriti che il dio dell’aria tempestosa e del cielo sereno, Zeus, ha tratto (impregnandolo in gloria) dal ventre riccioluto del mare biancoazzurro: per farne -  di Afrodite, di quella sua ormai adottiva figlia - le sussurranti lingueggianti ancelle, esperte di. ogni adorabile vezzo e obnubilante trucco, di nebbie repentine o liete schiarite. E in fine, la vaporosa e la suasiva Péitho, la Persuasione occulta, mezzana e ruffiana, insinuante e fedifraga tentatrice: cauta nel rivelarsi, ratta a disparire. 
Non occorreva davvero che i Padri della Chiesa si inventassero un inverecondo Diavolo; che in combutta con le odiosamate e tutto sommato maldestre e sempliciotte Streghe, gli acerbi Inquisitori, obsedés, escogitassero lussuriosi decotti maligni e filtri forieri di sgangherate passioni; che il Marchese de Sade e i suoi cervellotici nipotini inalberassero stendardi di adolescenziale perversione, che ancora garriscono e imperversano stralunati e sbrindellati sull’eccitazione drogata e la morbosità permissiva di qualche pingue o emaciato epigono (o stanca videosquillo, multisex per noia); o che buon ultimo, Freud riaccendesse il lume di una pluriscontata libido, con la trovata/scoperta viennese dell’acqua calda, pansessuale: quando  dei barbagli d’oro, esultanti e accecanti, di Afrodite, Saffo già conosceva tutto ciò che da conoscere c’era. 
E per essere esatti, ventisei secoli prima di questa fine millennio, impettito e imbottito di coltissima ignoranza, tra ballante sul baratro scavato da orde intellettuali più o meno organiche e engagées: esimie per aver preso in ogni campo delle cosiddette scienze umane lucciole per lanterne, e frastornanti cantonate socio-psicologiche, storico-patologiche. Per non parlare degli utopici granchi che rossi o bianchi, neri o verdi, appena presi, le hanno attenagliate segnando le di malcelate, e pur quando sveltamente scancellate, perduranti, repellenti vesciche. 
Saffo sapeva e diceva, improvvisava le sue canzoni e fu dei primi che trascrivessero, armati di stilo, le parole fino allora “fatte d’aria”:e nel suo dire armonioso enunciava la primitiva e modernissima verità che ogni donna custodisce nelle viscere; e con lei, ogni uomo che abbia rinunciato a fregiarsi della propria tradizionale e fuorviante virilità di parata, dopo avere sperimentato quanto l’equivoco orgoglio lo dirottasse nelle deprimenti e tanto consimili secche della puritana castità o di una ubriaca fregola da osteria. Ciechi, vicoli ciechi. Saffo sapeva e diceva, con la grandezza in più, chiara e elementare, del primo poeta che abbia tradotto l’amore vissuto — fino allo smemorante orgasmo, fino alla feccia della disperazione — in parole. Da cui vennero e sono venute, germinando qua e là nello spazio e nel tempo, le altre sole che vediamo - pepite luminose in un magma di fango - valere e contare. Renderle omaggio (alla donna amorosa e allo schietto poeta) era lo scopo umile di chi si sapeva sicuro d’avere intuita e raccolta l’eco della sua primizia e primizia, nel sospetto. che molto del resto non fosse che superflua letteratura. Ma al di là della modestia dell’esito di ogni innamorato sforzo, ora dico (in prima persona) che mi sembra non si possa parlare di Saffo senza avere ben chiaro “cosa” fosse per lei “Afrodite premessa necessaria anche per leggere di lei, o per tentare di decodificarne i superstiti e malconci frammenti; per scorgere almeno una traccia d’esitante ma viva vita in ogni temerario specchio che si azzardi a riflettere anche solo una fantasticata ombra del suo strabiliante, passionale e dolente, transitare sul nostro pianeta. Che rotola nel vuoto nero del tutto o del nulla: ma le sole vere scintille di cui s’accende e spegne, sono d’amore. 
                                      
                                                                                                  Grytzko Mascioni


Navigando, l’estate 1991, 
sulla m/rn « Repubblica di Venezia » 


Dall’introduzione a
Saffo di Lesbo
Donna d’amore e poesia

Aloadi

Aloadi 

Nella mitologia greca sono i giganti figli di Aloeus (o di Poseidone), di nome Oto ed Efialte. Nella loro lotta contro gli dèi i giganti cercano di abbattere l’Olimpo, incatenano il dio della guerra Ares e lo tengono prigioniero per tredici mesi. Quando Artemide si getta fra loro nelle sembianze di una cerva, essi si uccidono a vicenda nel cieco ardore della caccia. Forse gli Aloadi erano dèi pre-ellenici, che persero la battaglia contro Zeus.

rhétra


rhétra

1. responso dato da un oracolo; 

2. ognuna delle leggi non   scritte che reggevano il ghénos e   la società greca durante l’epoca arcaica. 
I primi codici scritti furono  ricavati appunto dalle antiche rhétra, riunite a formare un corpo di   leggi.

La più antica rhétra scritta è   quella che gli Elei fecero incidere   su una targa di bronzo, che venne  consacrata nel tempio di Zeus Olimpio (a Olimpia). Di un insieme di   rhétrai si può parlare anche per la   costituzione spartana di Licurgo,   codice non scritto, ma riconosciuto   per tacito accordo da tutti i cittadini.
 

Amazzoni

Amazzoni 

(dal greco dmazos =  col seno reciso). 
Popolo di donne guerriere originarie, secondo la leggenda, della Cappadocia, dove abitavano nella valle traversata dal fiume Termodonte. Si dice  che esse si bruciassero o tagliassero la mammella destra per potere  più agevolmente tirare con l’arco.  Non ammettevano fra loro gli  uomini, e una sola volta all’anno si univano con i Gargareni; ma  uccidevano (secondo Giustino)  o storpiavano (secondo Diodoro)  i figli maschi appena nati da queste unioni, allevando con gran cura solo le femmine.  Alcuni autori narrano invece  che presso le A. vivevano anche  degli uomini, ma solo come schiavi.  

Le Amazzoni .soggiogarono la Crimea  e la Circassia, si resero tributarie la Colchide, l’Iberia e l’Albania, spingendosi fin nella Scizia e parteciparono sotto la guida di Pentesilea,  uccisa da Achille, alla guerra  di Troia. Furono combattute da Bellerofonte, da Teseo che  ne sposò la regina Ippolita, e  da Eracle che ie distrusse quasi completamente. 

Fonti:
Diodoro Siculo: Biblioteca, Apollodoro: Biblioteca ; Seneca:   Ercole sul monte Oeta; Stazi:  Tebaide, V e XII,  Igino Favole XIV e CLXIII; Giustino II;   Tasso: Gerusalemme Liberata,  XX.    

Aiora

Aiora.

Festa ateniese in onore di Dioniso. 
L’intento era di placare il dio che s’era adirato     per il suicidio di Erigone.
Venivano impiccati   dei fantocci vestiti da donna,        che si facevano dondolare al        canto di una canzone, imitando   la scena del suicidio di Erigone.