Panatenee


Panatenee, in origine festa campestre del raccolto, poi festa politica, la cui istituzione si fa risalire a Teseo. Cominciano col VI sec, a. C, le grandi panatenee, che si celebravano ogni 4 anni, il 28 luglio, giorno natale di Atena, per parecchi giorni di seguito, con gare ginniche e musicali, con processioni dal Ceramico all’Acropoli per portare ad Atena un peplo magnifico che tessevano le donne ateniesi, e finalmente con un’ecatombe di buoi e con un gran banchetto in comune. Le piccole panatenee si celebravano ogni anno con minore solennità. 

La battaglia delle Termopili


La battaglia delle Termopili

Durante la spedizione di Serse in Grecia la battaglia delle Termopili divenne famosa per la morte dei 300 spartani di Leonida, che pur di non abbandonare la postazione rimasero a combattere fino alla fine. Ecco una testimonianza di Erodoto, VII, 104, 4-5 sul valore militare degli Spartani:

“Gli Spartani, combattendo uno per uno, non sono meno valorosi di nessuno, e tutti insieme sono i più valorosi di tutti gli uomini. Perché essi, pur essendo liberi, non sono del tutto liberi: sovrasta loro la Legge [...]. Fanno quel che essa ordina [...] non permettendo di fuggire, qualunque sia il numero dei nemici, sottraendosi alla battaglia, ma ordinando di rimanere al proprio posto e di vincere o morire”.

Verrà un giorno in cui la sacra Ilio perirà

ETTORE   Verrà un giorno in cui la sacra Ilio perirà,
e Priamo, e il popolo di Priamo dalla lancia gloriosa.
Ma non mi importa tanto il dolore dei Troiani,
né della stessa Ecuba, né del re Priamo,
né dei miei fratelli che, molti e valenti,
si abbatteranno nella polvere per mano dei nemici,
quanto mi importa di te, quando qualcuno degli Achei corazzati di bronzo
ti porterà via piangente, togliendoti la libertà;
e ad Argo tesserai la tela per un’altra donna,
attingerai l’acqua dalla Messeide e dall’Ipereia, costretta a forza
e una dura necessità incomberà su di te;
forse qualcuno, vedendoti piangere, dirà:
“Questa è la sposa di Ettore, che era il più forte in battaglia
di tutti i Troiani domatori di cavalli,
quando combattevano a Ilio”.
Così dirà un tempo qualcuno; e per te sarà un nuovo dolore,
vedova dell’uomo che poteva allontanare da te
il giorno della schiavitù. Ma mi ricopra morto la terra gettatami addosso,
prima che io senta le tue grida, mentre ti trascinano via.

Omero, Iliade

Erodoto - Storie - Euterpe

Libro II (Euterpe). La sconfitta di Creso ad opera di Ciro permette ad Erodoto di ricollegarsi con le vicende della Persia.
Si narrano le imprese di Cambise, successore di Ciro e conquistatore dell’Egitto;  l’argomento principale dà l’avvio ad un’ampia digressione di carattere storico, geografico ed etnografico sull’Egitto. La prima parte è dedicata alla descrizione della valle del Nilo e dei suoi abitanti: lo storico fornisce numerose e varie informazioni su usi estremamente diversi da quelli dei Greci, con l’atteggiamento del viaggiatore incuriosito, ma anche rispettoso dei costumi altrui. Segue la trattazione etnografica, fa seguito quella più propriamente storica: attraverso le informazioni raccolte da sapienti e sacerdoti, Erodoto delinea una storia dei faraoni, a partire da Min, fondatore della dinastia tinita (3000 circa a.C.). Grande rilievo viene dato ai sovrani della IV dinastia (2660-2480 a.C.), Cheope, Chephren e Micerynos, che fecero costruire le piramidi di Gizah. Segue  il racconto della restante storia egiziana, che si conclude con il regno del saggio faraone Amasi, grande ammiratore dei Greci (569-526 a.C.). Interessante  il racconto del mito del soggiorno di Elena in Egitto.

Erodoto - Storie - Clio

Libro I (Clio). Dopo il breve proemio metodologico, il libro contiene la narrazione dei mitici rapimenti di donne dall’Europa e dall’Asia, con cui Erodoto intende spiegare l’antica rivalità fra queste due nazioni; segue poi la storia del violento assoggettamento delle colonie greche dell’Asia Minore da parte dei re di Lidia. Ciò offre spunto per una vasta digressione sulla storia della Lidia,  dalle origini all’ultimo re, Creso, vinto e detronizzato dal re dei Persiani, Ciro. In questa parte del libro è particolarmente degno di nota il racconto dell’incontro fra Creso e Solone, che, pur essendo frutto di pura fantasia, serve ad Erodoto per un approfondimento di carattere morale e religioso. 

Infatti, la possibilità offerta a Creso di correggersi, dopo aver ascoltato le sagge parole di Solone, altro non è che un segno degli dèi, inviato al re di Lidia, perché si renda conto dei suoi errori. Ma poiché Creso non lo accetta, si espone alla punizione divina.

Il libro contiene anche la trattazione della storia dei Medi e dei Persiani; ciò offre all’autore il motivo per un’estesa biografia di Ciro il Grande, fondatore dell’impero persiano, all’interno della  quale si colloca un’ampia ed interessante digressione sulla civiltà babilonese. Dopo la conquista di  Babilonia, Ciro inizia la sua ultima campagna, e muore combattendo contro i Massageti.

Il tempo lungo ed incalcolabile

Il tempo, lungo ed incalcolabile, tutto
l’invisibile porta alla luce e nasconde ciò che è chiaro;
non c’è niente di inatteso, ma vacilla
anche il giuramento più solenne e l’animo più saldo.
Ed io che un tempo tenni duro nei pericoli,
come il ferro nella tempra, ora mi sono addolcito
alle parole di questa donna; ho pietà di lei,
di lasciare in mezzo ai nemici lei senza un uomo e mio figlio orfano.
Ma ora andrò verso i lavacri ed i prati del lido,
per purificare la mia sozzura
e sottrarmi alla grave ira della dea;
e giunto  in un luogo intatto da vestigia umane,
seppellirò questa mia spada, la più odiosa delle armi,
dopo nessuno la vedrà più, scavata la terra;
ma la custodiscano nel profondo la notte e Ade.
Infatti, da quando io l’ebbi in mano,
dono di Ettore, il mio più terribile nemico,
non ebbi più bene da parte degli Achei.
È vero il proverbio dei mortali,
che i doni dei nemici sono doni funesti.
Perciò, in futuro, sapremo cedere agli dèi
e impareremo ad onorare gli Atridi.
Comandano; e dunque bisogna piegarsi.

Sofocle, Aiace, vv. 646-668

inno orfico a Pan


Inno orfico
A PAN

profumo vario.


Invoco il potente, selvaggio Pan, totalità del mondo,
e cielo e mare e terra, universale regina,
e fuoco immortale: ché son queste le membra di Pan.
Vieni, o beato, che danzi ed erri e insieme con
     le Hore governi,
o            capriforme, che ami le orgie e le mistiche follie, che godi del cielo aperto
e l’armonia del mondo ridesti col tuo lieto canto sonoro,
aiuto contro i fantasmi e stupendo terrore pei mortali,
che di apparir ti diletti presso le fonti a caprari
e a pastori;
o tu che vedi lontano, o cacciatore amico di Eco
        e compagno di ballo alle Ninfe,
che tutto produci e generi tutto, o nume onorato,
signore del mondo, che accresci la vita e diffondi
         la luce, o fecondo Paian,
di antri amante, aspro nell’ira, verace Zeus cornuto,
ché su dite si appoggia l’infinita distesa della terra
e a te di fronte si arretra il fragoroso flutto del
          mare infaticabile
e l’oceano che cinge tutt’intorno la terra;
o aereo alimento, o vitale respiro ai viventi,
occhio di fuoco che sul nostro capo, leggero, ti libri.
Al tuo comando obbediscono questi divini elementi:
tu con la tua sapienza la natura di tutte le cose trasformi
e nutri l’umana specie per il mondo infinito.
Vieni, o invasato baccante, ai nostri santi riti,
concedi ottimo fine alla nostra esistenza
e i panici terrori disperdi ai confini del mondo.

Paride


Pàride, detto anche Alessandro, secondo figlio di Priamo e di Ecuba; in seguito ad un sogno che l’avrebbe indicato come rovina della patria, Priamo affidò Paride, appena nato, al pastore Agelo, perché lo esponesse sull’Ida; ma il bambino fu allevato da un’orsa, e poi dal pastore Agelo stesso. Sull’Ida sposò Enone. Lassù anche decise a favore di Afrodite la gara della bellezza sorta tra Era, Atena e Afrodite, a cui Paride consegnò, in segno del primato, il pomo di Eris. Afrodite in premio gli promise la più bella donna del mondo; e infatti poco dopo Paride, riconosciuto dai genitori, ritornò a Troia, e di li fu mandato a Sparta alla corte di Menelao, dove conobbe Elena che rapi. Questo ratto fu causa della guerra troiana. Nella guerra Paride, sebbene valente e talvolta anche coraggioso, non dimostrò particolare valore, standogli più a cuore la musica e gli amori. Con l’aiuto di Apollo riuscì tuttavia a uccidere Achille; ma poco dopo fu egli stesso ferito da Filottete con una freccia di Eracle; si affrettò allora a ritornare sull’Ida, dove fu curato amorosamente da Enone, ma la ferita era incurabile, e Paride morì. Figli di Paride  e di Elena  furono Corito, Agavo, Ideo, Brunico ed Elena.    

Gilbert Pillot - Itinerario segreto di Ulisse


Gilbert Pillot
L’itinerario segreto di Ulisse
Dellavalle editore, Torino, 1971

Se pensiamo all’iliade e all’Odissea si affacciano alla nostra mente scolastiche immagini di leggende e mitologia. Ma l’assedio e la presa di Troia, il lungo viaggio di Ulisse, raccontati poeticamente e con abbondanza di particolari, nascondono, ci dicono ormai gli storici, un preciso messaggio, una concreta verità storica e una serie di avvenimenti effettivamente accaduti. Gli affascinanti testi omerici sono in realtà il “ verbale” storico di una spedizione marittima avente per scopo di dare ai Greci il controllo dei Bosforo e del Mar Nero. Le descrizioni di questi itinerari tesori gelosamente custoditi e fonte di prosperità e di potenza per un popolo di navigatori ) dovevano essere mantenuti segreti per evitare una « fuga » di notizie. Così, afferma l’Autore, furono abilmente dispersi e mescolati in un testo più ampio e « insospettabile ». Solo coloro che conoscevano i testi a memoria e possedevano il codice di decifrazione potevano venirne a conoscenza. Ripetendo punto per punto, con la minuziosa pignoleria di un investigatore, l’itinerario seguito da Ulisse, Gilbert Pillot ha ricostruito il « vero » viaggio dell’eroe greco dalle colonne di Ercole, alle Canarie e Madera, su fino all’Irlanda, alla Scozia e all’Islanda. Un viaggio appassionante rispolverato dal velo dei secoli e un libro che ha la tensione del « giallo » e i colpi di scena di un romanzo di spionaggio.

amore e riproduzione

Per il pensiero greco, la sessualità rappresentava, in generale, solo una componente secondaria dell’amore. Si ammetteva il nesso causale tra sessualità e riproduzione, ma non si insisteva sull’esistenza di una «ragione naturale» tale da conferire alla prima una finalità meramente genesiaca, tant’è che il ruolo di strumento riproduttivo riservato alla donna non implicava affatto un legame amoroso tra i due sessi, ma piuttosto un legame politico: il frutto dell’unione coniugale sarebbe stato un nuovo cittadino utile allo Stato, un soldato o una produttrice di soldati. L’amor profano, a esempio quello di un Alcibiade, era un miscuglio di attrazione fisica, di cameratismo e di rispetto suscitato da qualità eccezionali, possente passione alla quale meglio si addiceva una relazione omosessuale. 


Ioan P. Couliano
Eros e magia nel rinascimento


Pandroso

Pandroso, figlia di Cecrope, sorella di Agraulo; fu amata da Ermes ed ebbe da lui un figlio, Cerice; divenne poi dea della rugiada, e aveva sull’Acropoli un tempio, il Pandrosio, dove era l’ulivo sacro.  

Pane

Pane, antica divinità arcadica, la tradizione lo fece figlio di Ermes e di una ninfa, che fuggi come lo vide, essendo coi piedi e le corna di capro, i capelli incolti, naso schiacciato, corpo velloso, con la coda. Ebbe umore selvaggio e rumoroso, gridava attraverso le foreste e i monti, di costumi libertini, Fu protettore del bestiame minuto, dei pastori, dei cacciatori, cacciatore egli stesso e guerriero, dio dei guerrieri; conosceva l’arte di guarire e il futuro, e poteva rivelarlo agli uomini; i neoplatonici ne fecero la personificazione del Gran Tutto.  

Pelope

Pèlope, figlio di Tantalo e di Dione; suo padre lo uccise, lo fece a pezzi e lo cucinò per darlo a mangiare agli dèì; ma questi se ne accorsero e non lo mangiarono eccetto Demetra che senza badarvi ne mangiò una spalla. Gli dèi, per mezzo di Ermes lo risu­scitarono, e al posto della spalla mancante, gli fecero una spalla di avorio. Si presentò a Pisa per sposare Ippodamia, e dovette perciò gareggiare col padre di lei, Enomao, nella corsa coi cavalli, vincendolo con l’aiuto di Mirtilo, auriga di Enomao, che egli corruppe. Poi per non dare il compenso promesso a Mirtilo, lo uccise; e questi sul punto di morire maledisse la sua famiglia. Pelope conquistò poi il Peloponneso, che si chiamò così dal suo nome. Figli suoi e di Ippodamia furono Atreo, Tieste, Alcatoo, Nicippe, Lisidice, ecc, Da Peliope e da Assioche nacque Crisippo, che Atreo e Tieste uccisero; allora Pelope cacciò tutti i suoi figli dal paese. 

Pelion - Plesidi


Pélion, Plesidi, catena di monti nella Tessaglia, lungo il mare, dall’Ossa al promontorio Sepias (metri 1618). Secondo la tradizione i Giganti, quando vollero dare la scalata all’Olimpo, avrebbero rotolato l’Ossa sopra il Pelion, Sui Pelion avrebbe abitato anche il centauro Chirone. 

Pelasgo

Pelasgo, capostipite dei Pelasgi, che alcuni dicono essere figlio di Zeus e di Niobe e padre di Licaone; e altri invece figlio di Poseidone e di Larista, padre di Emone.
Re d’Argo quando vi giunse Danao con le sue cinquanta figlie; ma secondo altri questo re si sarebbe chiamato Gelanore.

Pegaso


Pègaso, cavallo alato, figlio di Poseidone e di Medusa; usci dal tronco di costei quando Perseo le tagliò la testa; portava i fulmini a Zeus. Bellerofonte ) lo prese mentre si dissetava alla fonte di Pirene, e ammansitolo e imbrigliatolo, se ne servi per uccidere la Chimera e le Amazzoni. Con un colpo di zampa percosse l’Elicona e fece sgorgare dal monte la fonte di Ippocrene; era perciò anche il cavallo delle Muse. 

Peitho

Peitho, dea della persuasione e quindi della seduzione, talora con personalità propria, talora come epiteto di Afrodite; spesso sono considerate due divinità associate.  

I cibi degli Spartani


I cibi degli Spartani.

La vivanda preferita da essi era il brodo nero (brodo con pezzi di carne) : i vecchi non assaggiavano la carne, lasciandola. tutta ai giovani e mangiavano il brodo a parte. Si racconta che un re del Ponto, per avere questo brodo nero, comprò come cuoco uno schiavo di Sparta., e siccome quando l’ebbe gustato, non gli piacque, il cuoco gli disse: O re, si può mangiare questo brodo, soltanto quando si è fatto il bagno nel fiume Eurota (fiume che passa da Sparta).
Dopo aver bevuto moderatamente, rincasavono senza lume, perchè non era permesso andare con torcia per le strade tutti dovevano essere avvezzi a camminare di notte intrepidamente, senza paura.
                            Plutarco.

Pelia

Pelia, figlio di Poseidone e di Tiro, fratello di Neleo, di Esone, di Fere e di Amitaone; sposò Anassibia e fu padre di Acasto, di Pelopia, di Ippotoe. Avendo Pelia tolto al fratello Esone la signoria di Iolco, Giasone figlio di Esone, quando fu grande, venne a ridomandargli il trono, e allora Pelia per liberarsene lo mandò alla spedizione del vello d’oro. Quando Giasone tornò dalla spedizione, trovò che Pelia aveva ucciso Esone; onde se ne vendicò per mezzo di Medea, che diede a intendere alle figlie di Pelia che avrebbe ringiovanito il vecchio loro padre, se esse l’avessero fatto a pezzi; cosa che infatti eseguirono.  

Peleo


Pelèo, figlio di Eaco e di Endeide, fratello di Telamone; partecipò alla spedizione degli Argonauti; sposò Antigone, figlia di Eurizio re di Ftia, ed ebbe in dote il dominio del paese; più tardi sposò sul Pelio la nereide Teti, e gli dèi assistettero alle sue nozze. Poseidone in quell’occasione gli regalò i cavalli Xanto e Balio, e Chirone la lancia peliaca; fu padre di Achille, che perciò è anche chiamato il Pelide.

Pelasgi

Pelasgi, popolo che si sarebbe diffuso. secondo Omero, in Tessaglia, secondo autori posteriori, su tutta la Grecia. Si pensa ora che si tratti di antichissima popolazione continentale , anteriore agli Indo-europei, che si potrebbe stabilire dai Baschi fino al Caucaso, attraverso gli Iberi, i Liguri, gli Etruschi, i Lemni. Il problema re­ta però sempre discusso, né si può decidere se essi siano i rappresentanti della cultura cretica.  

Peana


Peana, canto corale in onore di Apollo, cantato sul flauto, e cosi chiamato (paiàn) dal nome speciale di Apollo, come dio della salvezza.   Più tardi furono cantati anche in onore di altre divinità o di uomini deificati. 

Hestia - Hermes

Hestia - Hermes

1.  I Greci veneravano un coppia di dèi: Hestia ed Hermes. In un linguaggio più vicino a noi, potremmo chiamarli: Focolare e Angelo. Hestia è il nome proprio di una dea, ma anche nome comune che designa il focolare domestico, e anche il focolare comune della Polis. Essa è raffigurata anticamente spesso in coppia con Hermes. “Entrambi,  — spiega l’inno omerico a  Hestia (I, 11-12), abitate nelle belle dimore degli uomini che vivono sulla  superficie della terra, con sentimenti di mutua amicizia”.  

In effetti Hestia è il focolare circolare, fissato nel suolo, è l’ombelico attorno al quale la casa si radica nella terra. Essa, nota Jean-Pierre Vernant, è simbolo e pegno di fissità, di immutabilità, di permanenza. Ed è  in quanto centro fermo a partire dal quale lo spazio umano si orienta e si  organizza, che Hestia, per i poeti e i filosofi antichi, potrà identificarsi con  la terra, immobile al centro del cosmo. La terra intera, casa degli uomini,  sarà il focolare fisso del mondo. Essa non scambia, resta casta: Hestia è  vergine, come Athena e Arthemide.   

Anche Hermes abita nelle case dei mortali, anzi, come gli dice Zeus nel-  l’Illiade (XXIV, 334-5), “più di tutti gli dèi tu ami far da compagno a un  mortale”. Ma vi abita come Angelos, il messaggero, come chi è pronto a ripartire. “Non c’è niente, in lui,  di fisso, di stabile, di permanente, di circo-  scritto, né di chiuso. Egli rappresenta, nello spazio e nel mondo umano, il  movimento, il passaggio, il mutamento di stato, le transizioni, i contatti tra  elementi estranei. Nella casa  protegge la soglia, respinge i ladri perché  è lui stesso il Ladro [...], per il quale non esistono né serrature, né recinto,   né confine. Presente alle porte della città, ai confini degli stati, agli incroci delle vie, sulle tombe, che sono le porte del mondo infernale. Egli è presente ovunque gli uomini, fuori della loro casa privata, entrano in contatto  per lo scambio (nelle discussioni e nel commercio), o per la competizione,  come nello stadio. Banditore, dio errante, padrone delle strade, sulla terra e  verso la terra; introduce una dopo l’altra le stagioni, fa passare dalla veglia  al sonno, dal sonno alla veglia, dalla vita alla morte. Hermes è quindi inafferrabile, ubiquitario. Quando una conversazione cade subitamente e subentra il silenzio, il Greco dice: “Passa Hermes”. (Questa espressione del resto sopravvive anche oggi; nei paesi anglofoni quando la conversazione cade  si dice ancora “An angel passes”). Hermes porta una bacchetta magica che  cambia tutto ciò che egli tocca. E anche ciò che non si può prevedere né  trattenere, il fortuito, la buona o la cattiva sorte, l’incontro imprevisto, e  anche il felice ritrovamento casuale.   

In definitiva, l’ambito di Restia è l’interno, il chiuso, il fisso, il ripiega mento del gruppo umano su se stesso: in questo modo Hestia assicura al  gruppo domestico (e per estensione al gruppo cittadino) la sua perpetuazione nel tempo. Notiamo che quando Platone, nel Cratilo, tenta una etimologia di Restia, finisce con il collegarla ad ousia, che altri chiamano anche essia, cioè “l’essenza fissa e immutabile”. L’ambito di Hermes è l’esterno,  l’apertura, la mobilità, il contatto con l’altro da sé.

Dalla rivista Aut-aut, 
Numero 258
Novembre-dicembre 1993
Articolo:   Hestia-Hermes: la filosofia  tra Focolare e Angelo  
di Sergio Benvenuto 
Pagine 29-30.

Veduta generale del recinto sacro di Delfi


dizionario da Abante a Acheleo

Abante — Troiano, figlio di Euridamante e; morì nella guerra  di Troia per mano di Diomede.

Abanti — Popolazione dell’Eubea.

Abarbarea — Ninfa Naiade, ricordata da Omero come sposa  di Bucolione e madre dei due gemelli Esepo e Pedaso, che morirono in combattimento davanti a Troia per mano di  Eurialo.

Abido —. Città della Troade sulla costa dell’Ellesponto.

Abioi — Popolo nomade che viveva nelle regioni della Scizia.
 Omero lo dice il più giusto dei popoli.

Ablero — Troiano ucciso in battaglia da Antiloco.

Acaia — Regione montuosa del Peloponneso settentrionale,  la cui popolazione conservò, sino all’età storica, il nome omerico di Achei.

Acamante — Troiano, figlio di Antenore, valoroso guerriero,  che vendicò la morte del fratello Archioco ucciso da Aiace,  colpendo mortalmente Promaco. E’ ricordato pure come uno  dei condottieri dardani. Con ogni probabilità deve essere  identificato con un Acamante ucciso da Merione. Mentre  cercava di salire sul cocchio per sfuggire all’imoeto di Patroclo.
 — Figlio di Asio, seguì il padre alla guerra di Troia. E’  ricordato fra i guerrieri che, al seguito di Asio, si lanciarono cogli scudi levati contro il muraglione dei Greci e  furono respinti dai due Lapiti Polipete e Leonteo.
 — Figlio di Eusoro, condottiero dei Traci, alleati dei  Troiani. Fu ucciso in combattimento da Aiace Telamonio.  Era rinomato per la sua grande velocità.
- Figlio di Teseo e di Fedra, fratello di Demofoonte. Partecipò alla guerra di Troia e fu tra gli eroi greci che si rinchiusero nel ventre del famoso cavallo costruito da Epeo.

Acarnania — Regione della Grecia settentrionale sulla costa del mar Ionio, ad occidente dell’Etolia. I suoi abitanti  non sono ricordati fra i popoli che parteciparono alla  guerra di Troia.

Acasto — Signore di Dulichio, ricordato da Ulisse nel racconto  delle sue immaginarie avventure fatte ad Eumeo.

Achei — Il nome con cui sono più frequentemente designati i  Greci in Omero.

Acheleo — Fiume della Lidia che nasce dal monte Sipilo.


Dioniso o Bacco

Dioniso o Bacco  

(Dionysas,  Bacchus). 
In epoca  classica è il dio del vino e del delirio mistico; in origine è  un dio della natura. La sua leggenda è  molto complessa e comprende anche elementi stranieri alla Grecia. È figlio di Zeus e  di Semele, che a sua volta è figlia di Cadmo, re di Tebe,  e di Armonia. Semele,  amata da Zeus, gli  aveva chiesto, per  istigazione della  gelosa Era, che si  mostrasse a lei in tutta la sua potenza e ne era stata fulminata. Zeus prese il bambino  non ancora nato,  lo introdusse in  una sua coscia e  lo portò a termine,  poi lo confidò a Ermete che lo diede da allevare ad Atamante, re di  Orcomeno e alla di  lui moglie Ino, per  sottrarlo alla vendetta di Era, ma Era fece  impazzire Atamante  e Ino. Zeus allora  portò il bambino a  Niso, luogo imprecisato, ricco di boschi e di sorgenti, e lo affidò  alle ninfe. Divenuto adulto, Dioniso scoprì l’uso dell’uva, inebriò se stesso, le ninfe, i satiri e con essi  errò per l’Egitto e  la Siria e giunse in Frigia dove fu accolto dalla dea Cibele; poi passò in Tracia, dove il  re Licurgo tentò di farlo prigioniero, senza  riuscirvi, e catturò il suo seguito, ma  il paese divenne  sterile e, per allontanare il flagello, gli  abitanti dovettero  uccidere Licurgo. Andò in India con un  corteo trionfale: un carro tirato da pantere, con Sileni, Baccanti,  Satiri. Tornato in  Grecia giunse in  Beozia, a Tebe, dove regnava Penteo, e vi introdusse i Baccanali. Il re si oppose e  fu punito: sua madre Agave che si era unita alle Baccanti, scambiandolo con un cinghiale, nel delirio lo uccise.  Anche ad Argo le Pretidi furono colpite  di pazzia per non averlo accolto. Poi  si diresse verso Nasso, su una nave di pirati, che tentarono di tradirlo e di invertire la rotta per venderlo  in un porto come schiavo. Ma Dioniso li punì  facendoli impazzire, sicchè si gettarono  in mare e furono  trasformati in delfini. A Nasso egli trovò Arianna abbandonata da Teseo.    

Scese anche nell’Ade per prendere sua madre Semele e condurla sull’Olimpo.  

Il  mito di Dioniso presenta dunque due  aspetti: è il dio della letizia, delle feste della vendemmia  ed è il dio perseguitato e misconosciuto;  a questi due aspetti corrispondono le  feste della primavera  e della vendemmia da un lato e le feste  orgiastiche dall’altro. Le feste della vendemmia e della primavera diedero luogo in  Grecia a vere e proprie rappresentazioni da  cui ebbero origine  i drammi satireschi, la tragedia e la  commedia.   

Il  culto orgiastico, che giunse in Grecia più tardi dall’Asia  Minore, era celebrato  dalle donne: le Menadi, le Baccanti, le Lene,  che agitavano fiaccole e tirsi, in rumorosa processione; esso in parte passò nella religione dei misteri, in cui Dioniso ha il nome di Jacco   e di Zagreo.

    A Dioniso erano sacri: l’edera, il tralcio della vite, il toro, la pantera, il caprone. Simboli del culto erano il tirso, la pelle di cerbiatto, i serpenti, la cesta mistica, le fiaccole, i flauti, il cembalo.

A  Roma fu identificato con il dio italico Libero. 

Cirene

CIRENE

figlia di Ipseo, re dei Lapiti, e della ninfa Clidanope, disprezzò i lavori propri del suo sesso per darsi alla caccia di belve sul monte Pelio col pretesto che le greggi paterne dovevano essere protette. Un giorno Apollo la vide lottare senza armi con un leone. Stupito, chiamò il centauro Chirone, il quale gli suggerì di farne la sua amante. Apollo su un cocchio trainato da cigni, portò Cirene in Libia nel posto che poi doveva assumerne il nome. Con l’aiuto di Afrodite la mise incinta di Aristeo. Apollo  lasciò Cirene in Libia, ma ritornandovi un’altra volta, generò con Cirene anche il vate Idmone.  Una volta dormì anche con Ares, e ne nacque il tracio Diomede. 

Ambrosia

Ambrosia

Cibo degli  dei, come il nettare ne era la bevanda; conservava loro l’immortalità e l’eterna giovinezza. Con tale nome Omero chiama anche un unguento divino che aveva  il potere di risanare le ferite. L’ambrosia si trovava nell’orto delle  Esperidi, ed erano le colombe  a portarla in volo agli dei.  Per alcuni autori, come Alcamane  e Saffo, l’ambrosia, era bevanda e il nettare invece cibo. 

Karl Kerényi - Dioniso


Karl Kerényi
Dioniso
Adelphi

Si può dire che questo libro — la più affascinante e profonda raffigurazione del mondo di Dioniso — abbia accompagnato tutta la lunga vita di studioso di Kerényi, compiendosi pochi anni prima della sua morte. Già nel 1935, nei suoi Pensieri su Dioniso, Kerényi scriveva: ‘Hanno i Greci mai pensato sul loro Dioniso pensieri come quelli di Otto o come quelli qui espressi? Certo per loro era più facile. Poiché essi possedevano nel mito e nell’immagine, nella visione e nella rammemorazione del culto l’essenza di Dioniso nella sua piena espressione». Ed è appunto l’intenzione che guida il libro: benché ‘imperfetti  rispetto alla conoscenza mitica, gli strumenti del pensiero debbono essere usati col massimo rigore, perché sono per noi l’unica via d’ao cesso a queste realtà che li sovrastano.
Questo fu un po’ sempre l’animus di Kerényi come studioso — e si può dire che mai come in Dioniso, che è quasi il coronamento di tutta la sua opera, esso palpabilmente appia. Molte sono le novità che affioreranno nel quadro da lui delineato — e in particolare la rivendicazione, clamorosamente confermata dai ritrovamenti archeologici e dalle decifrazioni più recenti, dell’origine cretese di Dioniso. Ma imponente è innanzitutto l’insieme, che accompagna le metamorfosi del dio in ogni dettaglio del culto, del mito, della poesia e dell’esperienza quotidiana.


Karl Kerényi (1897-1973) è autore di fondamentali studi sulta religione del mondo classico; ricordiamo in particolare Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia (1942, in collaborazione con C.C.Jung), Miti e misteri (1950) e Gli Dei e gli Eroi della Grecia (1951-1958). Di Kerényi Adelphi ha in preparazione The antike Religion (1940).

Circe

Circe

famosa maga, in origine probabilmente una dea della morte, se non addirittura un’altra personificazione di Ecate che, secondo- Diodoro Siculo, ne sarebbe stata la madre. Comunemente, però, Circe è ritenuta figlia di Elio e di Perse e sorella di Eeta, re di Colchide. Il regno di Circe era l’isola di Eèa (« lamento »), l’isola del crepuscolo; che fa appunto ritenere Circe una dea della morte. 

Circe appare in due cicli mitologici; una volta nella storia di Giasone e Medea e degli Argonauti, dove per altro ha una parte marginale, e l’altra volta nell’Odissea, dove assume ben altro rilievo. Sennonchè, mentre la Circe degli Argonauti, racconto molto più antico, è per così dire la Circe originale, Omero nell’Odissea ne ha liberamente rielaborata la figura sovrapponendola, come molti ritengono, alla dea italica Marica . Anche l’isola di Eèa non può essere la medesima nelle due storie: la prima dev’essere collocata nell’alto Adriatico (Lussino?), l’Eèa omerica invece nel basso Tirreno; forse si tratta del promontorio di Monte Circeo. 

Scampato con un sol naviglio alla furia dei Lestrigoni, Ulisse approdò all’isola di Eèa. Estratti a sorte, Euriloco e ventidue compagni si misero ad esplorare il paese, mentre Ulisse e gli altri rimanevano a guardia della nave. Giunti nei pressi del palazzo di Circe, Euriloco e i suoi si imbatterono in lupi e leoni che però si comportavano amichevolmente verso i nuovi arrivati; in effetti erano uomini tramutati dai sortilegi di Circe. Questa invitò i messi di Ulisse a pranzo, ma appena ebbero assaggiato un boccone, si mutarono in porci. Si salvò soltanto Euriloco che, diffidente, non era entrato nel palazzo di Circe. Visto quanto era successo ai compagni, ritornò di corsa da Ulisse. Questi prese la spada e si precipitò verso la magione di Circe per vendicare i suoi. Per la strada gli si fece incontro il dio Ermes che gli offrì un amuleto contro gli incantesimi di Circe: Moli, un fiore bianco profumato dalle radici nere, che soltanto gli dèi riuscivano a trovare. 

Grazie a questa protezione, il sortilegio di Circe non funzionò su Ulisse che, anzi, la minacciò con la spada. « Risparmiami », implorò la maga, «dividerai con me il talamo e il regno! ». Ma Ulisse, non fidandosi ancora, pretese e ottenne da Circe un solenne giuramento che mai più avrebbe ordito qualcosa di losco contro di lui. E in più, rifiutandosi di soddisfare le brame amorose della maga, ottenne anche la ritrasformazione dei suoi uomini. Dopodichè tutti quanti per un anno intero stettero ad Eèa facendo la dolce vita. Durante quell’anno Circe regalò a Ulisse anche un figlio, Telégono (o Telagòne), che molti anni più tardi avrebbe ucciso involontariamente Ulisse. Ma forse gli anni erano anche di più, perchè altri riferiscono che oltre a Telégono, Circe avrebbe reso Ulisse padre anche di Agrio e Latino. 

Ad ogni modo, quando Ulisse espresse il desiderio di ripartire, Circe lo lasciò andare senza troppe storie. Lo consigliò di scendere prima agli inferi per consultarvi l’anima di Tiresia sui suoi futuri destini e, quando dopo quella spedizione Ulisse ritornò brevemente ad Eèa, gli diede anche buoni consigli per il viaggio. Si racconta che Circe, dopo la morte di Ulisse per mano di Telegono, sposò Telemaco, l’altro figlio di Ulisse avuto da Penelope, mentre Telegono si prese in moglie la matrigna Penelope.

Una volta Circe si innamorò di  Glauco; non ne fu corrisposta, perchè egli amava Scilla. Per gelosia, Circe cambiò la rivale in un mostro marino, dopo d’aver avvelenato la fonte presso la quale i due amanti erano abituati a ritrovarsi insieme. 

Cipselo

Cipselo

Figlio di Eezione e di Labda la quale lo nascose in una cassa — che, in greco,  suona appunto capsule   - per sottrarlo alle furie  orgiastiche delle Mènadi  o   Baccanti. 
  
Lo tesso   nome è attribuito che fu     ad un re d’Arcadia,  padre di Mèrope.  

In limine: la necessaria Afrodite

IN LIMINE: LA NECESSARIA AFRODITE 

“La sfera d’influenza di Afrodite è data nel modo più diretto e tangibile: la soddisfazione delle gioie del sesso. “
WALTER BURKERT 

Nata dai vortici schiumosi dell’acqua marina e dallo sperma volante del Cielo, da una dolorosa e sanguinosa irruenza troncata dalla falce di Crono, ma che sfiniva in estasi, nell’equorea deriva egea, sulla rotta che porta da Citera a Cipro (sino al verdeggiante patio chiuso dai sacri recinti di Pafo), era la dea — l’unica vera dea — di Saffo. Lancinante bellezza che spezza il cuore e, insieme, gioia che spesso si involve in tormento: Afrodite. 
Colei che senza requie smuove il bene e il male del tutto, che folgora con l’occhio bruno e trafigge l’opaca inconsistenza quotidiana — l’insipiente apatia o il torpido rituale burocratico/esistenziale — di ogni vita (se ‘vita “, senza lei, può dirsi) vegetale, animale, umana: per sostanziarla di sé. Per accendervi il fuoco di un significato. Che resta tale anche quando si è fatto soltanto memoria estrema di sepolta brace; o che è già fiamma timida quando, ancora, in un ‘indistinta attesa, appena se ne avverte il primo, inquieto crepitare. 
Era (lo è ancora? lo sarà per sempre, sino al giorno in cui il friabile sempre degli uomini durerà?) ciò che dà il solo possibile senso all’insensata guerra e alla precaria pace. Ciò che ad uso di Omero innescò le trame corrusche e le morbide pause della spedizione distruzione e strage di Ilio/Troia. Che inventò l’abbraccio vincolante di Circe, il sogguardare oblioso di Calipso, il trepidare urgente di Nausicaa. Nerbo della vendetta di Medea e della ferocia di Clitemnestra, amaro sale del la pazienza di Penelope e del lutto di Andromaca, pruriginosa spezia del delirio di Fedra o del lamento di Cassandra. Fulgore invitto di superba cagna: che intrise di charme la forma per fetta di Elena, sposa sgualdrina. 
Era Afrodite insomma ciò che illuminando con la realtà sensibile del mito la transeunte irrealtà della nostra vita, offrendole effimero ma sanguigno e storico corpo, per grazia e disgrazia della ragazza Saffo — finché crescendo sino a farsi donna e quindi consumandosi, resse al suo esigente e divino, troppo divino diktat —, ne alimentò i deliqui dolcissimi e le esaltazioni stordite, come il più solitario e avvinghiante strazio. Mescolandovi ira, invidia e gelosia: al punto che su tale smagliante e sconvolgente cocktail, finì per spumeggiare (e parve miracolosa, poiché era la prima volta che si udiva) l’iridescenza dolceamara del canto: della poesia che dice, sincera mente, io... 
Si mostrava in terra la lirica che solo il subdolo forcipe di Afrodite avrebbe saputo e potuto trarre alla luce, simulando in termini quasi popolareschi un parto ovvio e indolore, e che indolore continua a parere a chi insiste a credere, con candida supeficialità o asessuato studio, che il midollare amplesso d’amore e morte sia un’ebbra e immatura (o decadente e manieristica) fantasticheria romantica. Era invece la lirica (di sangue nero e lampi di diamante) che è in tutti e di tutti: servita e disservita nel calice del desiderio, con alterna crudeltà e ammiccante compiacenza, dal barman/folletto, detto da Esiodo “bellissimo “.  Eros: di cui sappiamo l’arte di trasformista mistico o triviale, di travestito dai paludamenti carnascialeschi dello snobismo intellettuale o dell’illetterata svenevolezza. Reticente o espanso pornografo, mandolinista o vampiro, menèstrello o satiro. 
Eros: che era stato ben altro. Ma la cui astratta forza, la cui muta potenza e virtù di furiosa congiunzione, si ridusse presto a casalingo strumento dell’eternamente giovanissima Signora, Afrodite: di Cipride o Citerea, santa e insieme tenera mente scandalosa — volage e imperiosa — Signora..Egli in verità stava all’origine del mondo formato, dell’universo Cosmo: ma dopo ch ‘ebbe fecondato per impulso proprio il vuoto Caos, primordiale e infinito, e accoppiato l’Etere chiaro al fosco Erebo, la Notte al Giorno, il Cielo stellato alla fertile Terra, ormai non fu più (non è più) che l’alato capriccio, il valletto/trastullo, il servo/fanciullo (ora succube ora tracotante), la maliziosa e indefettibile scorta: al seguito e ai servizio di Afrodite. Cosa soltanto sua. 
Eros che trascolora: che è maschio o femmina o androgino, a suo gusto. O giovane o vecchio. Che muta maschera. Che al ghigno beffardo fa succedere il riso soave del più seducente incanto: rosa e spina, piuma sdolcinata e turbine losco. Efebo o virago, ninfa o tritone, bimba chiacchierina o adusto atleta, danzatrice procace o pudibondo ipocrita: regolarmente a cavaliere d’ilari turbamenti e indicibili disastri. Fugace e livida faccia di ogni triste mezzanotte, o meridiana febbre, felicità solare. Ma comunque asservito a Afrodite, suo schiavo astuto e intemperante complice. 
Il garbo che amiamo e che ci vuole (che ci dovrebbe sempre fare compagnia, riteniamo) per vivere (e convivere) decentemente, non ci impedisca mai di dire la banale verità, una fra le poche che, se onesti, dovremmo sapere: di dire che la vita, tra nascita e morte, è sesso. Di dire che è Afrodite. Che aphrodizéin (dal tempo in cui il tempo si è fatto consapevole e deperibile tempo, allo sguardo impietoso della neonata intelligenza greca) vuol dire ‘far l’amore”; che gli aphrodisia non sono altro che i giochi, i viluppi, gli intrecci,  gli amabili e forti sfoghi dei corpi in amore. Le “carezze profonde”  di Saffo: il cui oggetto più o meno diverso non ha rilievo in sé, poiché rilievo esse hanno già di per sé.
Né il medesimo garbo ci vieti di aggiungere che Afrodite non è compiutamente se stessa, se non incoronata e accompagnata dal proprio eccitante (“afrodisiaco”) corteggio: Eros in testa. E poi Himeros (o “brama”), suo congiurato fratello, giocoliere di voglie nascenti o rinascenti. E quindi le ragazze della grazia (della Chàris), le Càriti che il dio dell’aria tempestosa e del cielo sereno, Zeus, ha tratto (impregnandolo in gloria) dal ventre riccioluto del mare biancoazzurro: per farne -  di Afrodite, di quella sua ormai adottiva figlia - le sussurranti lingueggianti ancelle, esperte di. ogni adorabile vezzo e obnubilante trucco, di nebbie repentine o liete schiarite. E in fine, la vaporosa e la suasiva Péitho, la Persuasione occulta, mezzana e ruffiana, insinuante e fedifraga tentatrice: cauta nel rivelarsi, ratta a disparire. 
Non occorreva davvero che i Padri della Chiesa si inventassero un inverecondo Diavolo; che in combutta con le odiosamate e tutto sommato maldestre e sempliciotte Streghe, gli acerbi Inquisitori, obsedés, escogitassero lussuriosi decotti maligni e filtri forieri di sgangherate passioni; che il Marchese de Sade e i suoi cervellotici nipotini inalberassero stendardi di adolescenziale perversione, che ancora garriscono e imperversano stralunati e sbrindellati sull’eccitazione drogata e la morbosità permissiva di qualche pingue o emaciato epigono (o stanca videosquillo, multisex per noia); o che buon ultimo, Freud riaccendesse il lume di una pluriscontata libido, con la trovata/scoperta viennese dell’acqua calda, pansessuale: quando  dei barbagli d’oro, esultanti e accecanti, di Afrodite, Saffo già conosceva tutto ciò che da conoscere c’era. 
E per essere esatti, ventisei secoli prima di questa fine millennio, impettito e imbottito di coltissima ignoranza, tra ballante sul baratro scavato da orde intellettuali più o meno organiche e engagées: esimie per aver preso in ogni campo delle cosiddette scienze umane lucciole per lanterne, e frastornanti cantonate socio-psicologiche, storico-patologiche. Per non parlare degli utopici granchi che rossi o bianchi, neri o verdi, appena presi, le hanno attenagliate segnando le di malcelate, e pur quando sveltamente scancellate, perduranti, repellenti vesciche. 
Saffo sapeva e diceva, improvvisava le sue canzoni e fu dei primi che trascrivessero, armati di stilo, le parole fino allora “fatte d’aria”:e nel suo dire armonioso enunciava la primitiva e modernissima verità che ogni donna custodisce nelle viscere; e con lei, ogni uomo che abbia rinunciato a fregiarsi della propria tradizionale e fuorviante virilità di parata, dopo avere sperimentato quanto l’equivoco orgoglio lo dirottasse nelle deprimenti e tanto consimili secche della puritana castità o di una ubriaca fregola da osteria. Ciechi, vicoli ciechi. Saffo sapeva e diceva, con la grandezza in più, chiara e elementare, del primo poeta che abbia tradotto l’amore vissuto — fino allo smemorante orgasmo, fino alla feccia della disperazione — in parole. Da cui vennero e sono venute, germinando qua e là nello spazio e nel tempo, le altre sole che vediamo - pepite luminose in un magma di fango - valere e contare. Renderle omaggio (alla donna amorosa e allo schietto poeta) era lo scopo umile di chi si sapeva sicuro d’avere intuita e raccolta l’eco della sua primizia e primizia, nel sospetto. che molto del resto non fosse che superflua letteratura. Ma al di là della modestia dell’esito di ogni innamorato sforzo, ora dico (in prima persona) che mi sembra non si possa parlare di Saffo senza avere ben chiaro “cosa” fosse per lei “Afrodite premessa necessaria anche per leggere di lei, o per tentare di decodificarne i superstiti e malconci frammenti; per scorgere almeno una traccia d’esitante ma viva vita in ogni temerario specchio che si azzardi a riflettere anche solo una fantasticata ombra del suo strabiliante, passionale e dolente, transitare sul nostro pianeta. Che rotola nel vuoto nero del tutto o del nulla: ma le sole vere scintille di cui s’accende e spegne, sono d’amore. 
                                      
                                                                                                  Grytzko Mascioni


Navigando, l’estate 1991, 
sulla m/rn « Repubblica di Venezia » 


Dall’introduzione a
Saffo di Lesbo
Donna d’amore e poesia

Aloadi

Aloadi 

Nella mitologia greca sono i giganti figli di Aloeus (o di Poseidone), di nome Oto ed Efialte. Nella loro lotta contro gli dèi i giganti cercano di abbattere l’Olimpo, incatenano il dio della guerra Ares e lo tengono prigioniero per tredici mesi. Quando Artemide si getta fra loro nelle sembianze di una cerva, essi si uccidono a vicenda nel cieco ardore della caccia. Forse gli Aloadi erano dèi pre-ellenici, che persero la battaglia contro Zeus.

rhétra


rhétra

1. responso dato da un oracolo; 

2. ognuna delle leggi non   scritte che reggevano il ghénos e   la società greca durante l’epoca arcaica. 
I primi codici scritti furono  ricavati appunto dalle antiche rhétra, riunite a formare un corpo di   leggi.

La più antica rhétra scritta è   quella che gli Elei fecero incidere   su una targa di bronzo, che venne  consacrata nel tempio di Zeus Olimpio (a Olimpia). Di un insieme di   rhétrai si può parlare anche per la   costituzione spartana di Licurgo,   codice non scritto, ma riconosciuto   per tacito accordo da tutti i cittadini.
 

Amazzoni

Amazzoni 

(dal greco dmazos =  col seno reciso). 
Popolo di donne guerriere originarie, secondo la leggenda, della Cappadocia, dove abitavano nella valle traversata dal fiume Termodonte. Si dice  che esse si bruciassero o tagliassero la mammella destra per potere  più agevolmente tirare con l’arco.  Non ammettevano fra loro gli  uomini, e una sola volta all’anno si univano con i Gargareni; ma  uccidevano (secondo Giustino)  o storpiavano (secondo Diodoro)  i figli maschi appena nati da queste unioni, allevando con gran cura solo le femmine.  Alcuni autori narrano invece  che presso le A. vivevano anche  degli uomini, ma solo come schiavi.  

Le Amazzoni .soggiogarono la Crimea  e la Circassia, si resero tributarie la Colchide, l’Iberia e l’Albania, spingendosi fin nella Scizia e parteciparono sotto la guida di Pentesilea,  uccisa da Achille, alla guerra  di Troia. Furono combattute da Bellerofonte, da Teseo che  ne sposò la regina Ippolita, e  da Eracle che ie distrusse quasi completamente. 

Fonti:
Diodoro Siculo: Biblioteca, Apollodoro: Biblioteca ; Seneca:   Ercole sul monte Oeta; Stazi:  Tebaide, V e XII,  Igino Favole XIV e CLXIII; Giustino II;   Tasso: Gerusalemme Liberata,  XX.    

Aiora

Aiora.

Festa ateniese in onore di Dioniso. 
L’intento era di placare il dio che s’era adirato     per il suicidio di Erigone.
Venivano impiccati   dei fantocci vestiti da donna,        che si facevano dondolare al        canto di una canzone, imitando   la scena del suicidio di Erigone.

Cabiri

Cabiri secondo una tradizione, furono figli di Cabira (nome attribuito a Rea e a Demetra) e di Efesto.
Erano Dei misteriosi la cui protezione  veniva invocata dai navigatori, e venivano chiamati anche Cureti o Coribanti, Efesti a Lemno. In altri casi venivano identificati coi Dioscuri.

Glauco

Glauco 
Nella mitologia vari personaggi portano questo nome. 
1) figlio di Sisifo e di Merope. 
Sposò Eurimeda, da cui ebbe Bellerofonte. Salì al trono di Efira dopo la morte del padre, partecipò alla corsa delle quadrighe durante i giochi funebri in onore di Pelia e fu battuto da Iolao. Dopo tale gara fu divorato dalle sue giumente, rese pazze da Afrodite o forse da un’acqua che avevano bevuto. 
 2) figlio di Minosse e di Pasifae. 
Da piccolo si perse nel Labirinto, fatto costruire dal padre, e non fu più ritrovato. Il padre allora chiese consigli a un oracolo, che gli vaticinò il ritrovamento del figlio per mezzo dell’uomo che meglio di chiunque altro avesse saputo descrivere una mucca nata nel suo regno, il cui manto cambiava tre volte di colore nel corso della giornata. L’enigma fu risolto dal saggio Poliido, il quale paragonò la vacca ad una mora, che dapprima è bianca, poi è rossa e quando è matura diviene nera. Minosse incaricò Poliido di ritrovare il figlio, ma questi era caduto in una giara di miele ed era morto. Si avvicinò al cadavere del piccolo un serpente, che Poliido subito uccise, poi se ne presentò un altro che, visto il suo compagno morto, lo strofinò con un’erba magica che lo resuscitò. Poliido si impadronì di quell’erba e la sfregò sul corpo di Glauco, che subito riprese a respirare. 
3) figlio di Antenore e di Teano. 
Fu scacciato dal padre per aver aiutato Paride a rapire Elena. Durante la guerra provocata da tale atto, combattè contro i Greci e, secondo una versione, fu ucciso da Agamennone; altri sostengono che fu salvato da Ulisse e Menelao, i quali in tal modo ringraziarono Antenore che precedentemente li aveva ospitali. 
4) pronipote del figlio di Sisifo, figlio di Ippoloco. 
Combattè a fianco dei Troiani con il cugino Sarpedonte distinguendosi per l’abilità e il coraggio. Durante un combattimento Glauco si trovò davanti Diomede, la cui famiglia era legata a quella di Glauco da vincoli di amicizia. Per questo motivo non si batterono e si scambiarono le armi: Glauco offrì la sua armatura d’oro a Diomede e questi gli cedette la sua di bronzo. 
5) figlio di Poseidone; 
per aver mangiato un’erba miracolosa ottenne l’immortalità e si mutò in dio del mare. Partecipò alla spedizione degli Argonauti, cercò di rapire Arianna, abbandonata da Teseo a Nasso, amò invano Scilla e, per aver respinto Circe, fu da lei mutato in mostro marino. 

Virgilio gli attribuisce la paternità della Sibilla Cumana.

Sibaris

Sibaris 
Orrendo mostro che abitava in una caverna del Parnaso e divorava uomini ed animali. 
L’oracolo ordinò di esporgli il giovane Alcioneo, figlio di Diomo, ma Euribato entrò nella caverna invece del designato, ed uccise il mostro. 
In memoria di questo avvenimento, i Locresi chiamarono Sibaris una loro città. 

Sibaris fu il nome di un compagno di Enea, ucciso da Turno.

Sminteo

Sminteo 
Soprannome dato in Rodi ad Apollo come uccisore dei sorci dei quali aveva riempito i campi del sacerdote Crinime per punirlo della sua negligenza nel culto. Apollo stesso, infatti, uccise a frecciate quei sorci quando giudicò che Crinime fosse stato sufficientemente punito. 
Nell’Iliade, Apollo è chiamato così come liberatore della Troade da una grande invasione di topi, perchè era stata per quella regione un vero flagello.