ASTIANATTE

 ASTIANATTE

Temendo un’eventuale restaurazione del regno di Troia, i Greci ne uccisero l’erede al trono, Astianatte (“signore della città”), figlio di Ettore e di Andromaca, gettandolo dall’alto dei bastioni della città.

ASTEROPE

 ASTEROPE

Si ignora quasi tutto di Asterope, divenuta una delle stelle della costellazione delle Pleiadi: di lei si sa solo che sposò uno dei Titani.

ASTERIA

 ASTERIA

 Figlia del titano Ceo e di Febe, sposa di Perse e madre di Ecate, Asteria si trasformò in quaglia per sfuggire agli ardori di Zeus, e quindi si gettò in mare. Qui venne trasformata in un’isoletta rocciosa che prese il nome di Ortigia (dal greco ortux = “quaglia”), mutata successivamente in Delo, allorché sua sorella Leto (o Latona) visi recò per partorire Apollo e Artemide.

ASOPO

 ASOPO

Questo fiume del Peloponneso che sfocia in prossimità di Corinto, venne divinizzalo e, come tutti i fiumi greci, era stato generato da Oceano e Teti; aveva avuto a sua volta da Metope, una delle figlie del fiume Ladone, due figli e venti figlie, ed una di queste, Egina, venne rapita da Zeus, trasformatosi per l’occasione in aquila. Sisifo, re di Corinto, si apprestò a recarne la notizia al dio fluviale che, in un raptus di furore, gonfiò le sue acque e devastò tutta la contrada. Zeus punì il delatore facendolo precipitare negli Inferi e colpi con i suoi fulmini il padre indignato, per cui le sue acque travolgenti dovettero rientrare nel proprio letto originario con la massima rapidità.

Ascanio

 Ascanio

La tradizione più comune vuole Ascanio Figlio di Enea e di Creusa. Secondo altre versioni della sua leggenda, egli sarebbe invece figlio di Enea e di Lavinia. Dopo la caduta di Troia, una fiamma avrebbe volteggiato sul suo capo, ed Enea avrebbe veduto in questo fenomeno un presagio favorevole alla ricerca di un nuovo insediamento, per cui avrebbe preso la decisione di fondare una colonia in Italia. Si concorda tuttavia nell’attribuire al figlio di Enea la costruzione di Albalonga e gli si riconosce altresì il secondo nome di lulo, che ne fa quindi il progenitore della celebre famiglia romana Giulia.

Gli Dei greci non hanno bisogno dell'autorità di una rivelazione

 Gli Dei greci non hanno bisogno dell'autorità di una rivelazione

 Gli Dei greci si staccano nettamente da quelli dell'Oriente, perché, a differenza di questi, non si volgono a noi parlando direttamente di se stessi. Non meraviglia pertanto se, non ai primi, bensì a questi ultimi solitamente si guarda, quando si tratta di elaborare una concezione del Divino (il notissimo Das Heilige di Rudolf Otto ne è testimonianza). È osservazione certo non nuova, ad esempio, che una autotestimonianza divina, quale quella, a noi cosi familiare, che inizia con le parole: «Io sono ...» sarebbe impensabile in bocca a un Dio greco.

Gli Dei greci non parlano di se stessi. Apollo di Delfial quale per secoli e secoli, dai paesi più diversi, anche non greci, continuarono ad accorrere, in cerca di consiglio, pellegrini delle più svariate condizioni, dal re al mendicante — nulla ha mai rivelato del suo essere e del suo volere, ne mai ha preteso per sé una venerazione preferenziale. Torna in proposito alla mente una significativa affermazione di Schelling: «Proprio per questo — egli dice — Dio è il grande beato, come lo chiama Pindaro, perché i suoi pensieri sono volti continuamente a ciò che è fuori di lui, alla sua creazione. Lui solo non ha nulla da fare con se stesso, perché è a priori sicuro e certo del suo essere» (Deduktion der Prinzipien der positiven Philosophie, S.W. II 4,352). Nessun dogma dichiara, in nome di questi Dei, l'idea che se ne deve avere, l'atteggiamento loro nei confronti dell'uomo o il debito dell'uomo nei confronti loro. Nessun libro sacro determina che cosa si debba incondizionatamente sapere o credere. Ognuno può pensare degli Dei a modo suo: basta solo non si sottragga al tributo d'onore voluto dalla tradizione.

Gli Dei greci non hanno dunque bisogno dell'autorità di una rivelazione del tipo di quella cui si richiamano altre religioni. Essi testimoniano se stessi in tutto quel che è e accade, e ciò con tale evidenza che, nei secoli di grandezza, se si eccettuano pochi casi, non esiste incredulità. Quanta diversità dai tempi moderni! Omero, il più realistico di tutti i poeti (è ciò che lo fa sempre attuale,

anche a distanza di millenni), sa dire — in relazione a ogni accadimento importante — quale Dio vi sia presente e operante, e gli uomini, di cui racconta, sanno con certezza che — come essi dicono — "Dio" o "un Dio" ne è la causa segreta. Nel mondo omerico non c'è infatti accadimento in cui gli Dei non intervengano, non siano anzi attori nel senso più proprio della parola.

Ma di contro a questa onnipresenza partecipe e sovranamente attiva — carattere di cui torna facile e gradito prender atto —, sta qualcosa con essa difficilmente conciliabile, qualcosa che contrasta il corrente sentire religioso, che appare anzi un vero e proprio scandalo. Tra tutto quello che può dirsi intorno a questi Dei non c'è infatti cosa più certa di questa: che essi vivono nella pace di una suprema beatitudine, incuranti della felicità e della sofferenza del mondo. Sta in questo il tratto più tipico del loro esser divini ed è proprio nella celeste lievità, nella calma beatitudine che spira dalle loro figure che sta il potere letificante e liberante che gli Dei greci ancora posseggono.

 

Walter Friedrich Otto - Theophania, lo spirito della religione greca antica.

Gli uomini e gli Dei

paganesimo: Gli uomini e gli Dei

Gli uomini e gli Dei

Il monoteismo ha vomitato il suo squallido rapporto con il divino in ogni luogo. C’è  chi si accorge del fetore che il cristianesimo emana e si pone ad una distanza di sicurezza, c’è chi ne rimane stordito. Il cristianesimo pone il divino al di fuori del mondo. Le pecorelle del suo gregge vivono con gli occhi al cielo, vuota la loro speranza di scorgere una qualche manifestazione del loro dio. C’è chi ha raffigurato questa misera condizione con l’immagine del dio cristiano come un insetto che vola fuori dal mondo, ogni tanto scende a pungere; quando questo fenomeno si concretizza lo definiscono apparizione.

Divertente è la condizione di alcuni che si definiscono “pagani”, questi ritengono che gli Dei non siano nel mondo, che non possiedano un corpo, che vadano “immaginati” in quanto privi di forma e sostanza, viene da chiedersi se questo sia paganesimo.

Sul rapporto uomini e dei leggiamo quanto scrive Angelo Brelich nel suo libro “i greci e gli nei” nel capitolo intitolato “il politeismo greco”:

Solo la netta coscienza delle insopprimibili differenze tra dèi ed uomini consente ai Greci di accentuare, in misura altrove sconosciuta, quell’affinità che rende possibile una comunicazione straordinariamente viva tra mondo umano e mondo divino. Esiodo racconterà come in seguito al misfatto di Prometheus le vie degli uomini si siano separate da quelle degli dèi. Da allora l’uomo soggiace al suo destino di mortale ed è tenuto a sacrificare agli dèi: ma il mito esiodeo, mentre fonda l’abissale distacco, mette in rilievo anche la comune origine di dèi ed uomini, una comune natura anteriore alla separazione. Essa verrà riaffermata da Pindaro (Nem. 6): «una è la specie degli uomini e degli dèi; da una madre traiamo respiro entrambi; ciò che ci separa è un potere interamente distinto, di modo che l’una (= la specie umana) è nulla, l’altra resta sempre (sorretta da) l’incrollabile sede bronzea, il cielo ». Certo, l’uomo, questa nullità, questo (sempre per Pindaro) « sogno d’un’ombra » non può neppure avvicinarsi al livello dell’esistenza divina; ma questa gli si manifesta in forme così trasparentemente umane che il modo di essere e le azioni umane sembra possano porsi nella luce del suo riflesso.

Soltanto a prezzo di una grossolana semplificazione si potrebbe tentare di dare, in poche parole, almeno una rudimentale idea di questo rapporto. Allora potremmo dire che il giovane greco vedeva davanti a sé come ideale lo splendore dell’eternamente giovane Apollon, la vergine intatta e non ancora sottomessa poteva trasfigurare la propria condizione ritrovandone il modello in Artemis, la sposa nella sposa divina per eccellenza, Hera; l’abilità del commerciante, del viaggiatore o di chiunque dovesse avventurarsi in luoghi e circostanze imprevedibili, trovava un modello imperituro in Hermes; l’autorità, in tutte le sue forme più alte, si richiamava a quella del sovrano degli dèi, Zeus, ecc., ecc. Ma una dettagliata analisi delle figure divine e dei loro inesauribili rapporti reciproci, quali ci si presentano nei loro miti, riti, nelle feste, o in occasione delle invocazioni e delle dediche loro rivolte, nella posizione dei loro templi, ecc., rende vane e futili siffatte semplificazioni. Le divinità greche non sono riducibili a singole funzioni, a singole formule: esse sono complesse, e anche la loro complessità si nutre in maniera « antropomorfa » di quella dell’esistenza umana: perché se per i Greci stessi le divinità erano modelli immutabili per l’uomo effimero, lo storico non deve dimenticare che, in realtà, esse sono proiezioni sublimate dei valori che una società complessa come quella greca ha espresso da sé, ponendoli ai riparo da ogni contingenza.

 

ASCLEPIO

 ASCLEPIO

Esiodo e Pindaro ci hanno tramandato la storia di questo dio della medicina, così famoso nell’antichità che gli stessi Romani Io adottarono e lo venerarono sotto il nome di Esculapio. Sua madre tu Coronide, bellissima figlia di Flegia, re della Tessaglia, e di Apollo. La leggenda narra che, avendo ella sposato un mortale, fu trafitta da Apollo, portato a conoscenza dell’infedeltà da una cornacchia. Ma nel momento in cui il corpo di Coronide cominciò a consumarsi sulla pira funeraria, il dio, pieno di rimorso, strappò suo figlio, ancora vivo, dal seno della madre e lo affidò a Chirone. Asclepio apprese da questo saggio e sapiente centauro l’arte di trattare le erbe medicinali e, dosandole e miscelandole, imparò a ricavarne dei medicamenti. Ben presto acquisì una capacità tale che non solo gli riuscì di guarire gli ammalati, ma addirittura di resuscitare i morti: in particolare Glauco, Tindaro ed Ippolito debbono a lui di essere tornati in vita. Dietro le pressanti lamentele di Ade, che temeva di dover chiudere le porte del suo regno per mancanza di sudditi”, e di fronte al timore che l’ordine della natura potesse venir turbato da queste guarigioni miracolose, Zeus un giorno folgorò il troppo zelante Asclepio. Per vendicare la morte di suo tiglio, Apollo uccise i Ciclopi, gli artigiani che forgiavano i fulmini di Zeus e, per punizione, venne condannato a un breve esilio tra i mortali, sulla Terra.

Malgrado la sua tragica morte, Asclepio si meritò nell’antichità gli onori divini e numerosi erano gli infermi, i ciechi ed i malati in genere che si recavano nei suoi santuari (soprattutto in quello di Epidauro) per chiedere la guarigione o quanto meno che venissero placate le loro sofferenze: Asclepio appariva loro in sogno, indicando le cure o il rimedio che avrebbe loro restituita la salute. Quale emblema principale, recava il serpente, simbolo ctonio oltre che immagine di rinnovamento, dato che quest’animale muta ogni anno la propria pelle. Asclepio trasmise i suoi doni miracolosi ai figli Macaone e Podalirio, che accompagnarono l’esercito greco alla guerra di Troia; alla figlia Igea, dea della salute e ai suoi discendenti, gli Asclepiadi, i quali si riunirono in una confraternita sacerdotale in cui i “segreti” dell’illustre antenato si tramandavano di padre in figlio.

horkos - giuramento

 horkos (giuramento)

i Greci tenevano in gran conto il giuramento:

esso possedeva un profondo ca­rattere religioso ed era come un sigillo divino che si collocava sulla  parla data. Gli dei stessi, nella epopea omerica, giurano per lo lo Stige, fiume degli Inferi, per la terra e per il cielo. Si giurava nel nome di diversi dei, generalmente Zeus, della Terra e di Elio, o degli eroi e divinità locali, quali i Dioscuri, Eracle ecc, I giuramenti solenni di prestavano nei santuari o nei luoghi c consacrati, ed erano accompagnati da sacrifici. Si giu­rava alzando le mani verso gli dei, che si chiamavano a testimoni; op­pure si posava la mano sull’altare e vi si aggiungeva un’imprecazione, vale a dire, si accettavano i peg­giori mali in caso di spergiuro; cosa questa che, tuttavia, non im­pediva che Greci violassero spesso il giuramento. Si prestava giuramento in tutte le occasioni (i magistrati nel momento di entrare in carica, gli efebi  prima di entrare in servizio nell’armata): nei regimi tirannici si giurava fedeltà al tiranno; nei pro­cessi i giudici prestavano giura­mento, come pure le parti in causa e, naturalmente, i testimoni. Le città che si alleavano tra loro suggellavano gli accordi col giuramento. Anche nella vita privata si ricorreva spesso al giuramento; le donne giu­ravano per le due dee (Demetra e Kore), ma si giurava anche per il cane, per l’oca e per il platano; questi giuramenti però conferivano semplicemente maggior forza ai di­scorsi, senza che per questo si in-corresse nel castigo degli spergiuri. che era scontato nell’inferi.

hòmoioi - pari

 

hòmoioi (pari)

Con questo nome, a Sparta, si indicavano i cittadini di pieno diritto ed uguali di fronte alla legge: solo a questi « Pari” spettava il nome di Spartiati. Possedevano ciascuno un lotto (klaros) inalienabile, la cui rendita permet­teva loro di condurre una vita pub­blica, che aveva nei sissizi  il suo momento più significativo. Tuttavia, il progressivo dilatarsi della perioikis (suolo alienabile al di fuori della chòra, cioè del suolo spartano; spesso era incremento territoriale che seguiva ad una guerra vittoriosa) finì col produrre una grave spere­quazione nella distribuzione delle terre e, di conseguenza, dei patri­moni. Impossibilitati di reggere il confronto con i proprietari più po­tenti, molti hòmoioi si videro costretti ad abbandonare il proprio klaros; venendo a mancare con esso ogni rendita, riusciva loro del pari impossibile partecipare alla vita pubblica e ai pranzi comuni: ciò che faceva di fatto decadere l’homoios dalla sua primitiva posizione giuridica, degradandolo tra gli hypoeiones. Nel corso della storia di Sparta la classe degli homoioi andò progressivamente e inesorabilmente assottigliandosi (oliganthro­pla): ciò fu una delle cause decisive de parallelo declino, lento ma costante, della più importante città della Laconia.

Hierodouloi

 Hierodouloi

Schiavi sacri. Erano addetti al servizio della divinità, ed erano reclutati in diversi modi: città o persone private offrivano degli schiavi ai santuari, il che equivaleva ad una sorta di liberazione. In Atene le fanciulle delle grandi famiglie, fra i cinque e i dieci anni, erano consacrate ad Artemide Brau­ronia. Le occupazioni degli hiero­douloi erano molto varie: coltiva­vano le terre del dio, pagavano dei canoni, oppure erano inviati come coloni in altri luoghi. Presso i Lo­cresi Opunzi si inviavano periodica­mente due fanciulle di ottima fami­glia per farne le schiave di Atena nel suo santuario di Ilio.

hippéis - cavalieri

 

hippéis (cavalieri)

In Atene essi costituivano la seconda classe cen­sitaria della costituzione di Solone. Formavano una nobiltà minore legata alla terra; possedevano una rendita annuale equivalente a più di 300 medimni di grano. Questa rendita permetteva loro di mantenere un cavallo; per questo, allorché fu creata la cavalleria, solo i cavalieri poterono farne parte benché le maggior parte di essi continuasse e prestare servizio tra gli opliti.

Himation

 

Himation

Mantello civile portato dalle donne e dagli uomini. Era sola­mente drappeggiato contrariamente alla clamide. Generalmente era tessuto di lana bianca naturale; tuttavia le persone raffinate lo tin­gevano con colori di porpora o in verde, oppure l’ornavano di una banda colorata. Consisteva in una semplice stoffa rettangolare che si avvolgeva attorno al corpo in diversi modi. Lo si portava sul chitone, ma lo si indossava anche solo, come faceva Socrate, e soprattutto gli Spartani, di cui fu il solo vestito.