A SPASSO TRA LE ROVINE CERCANDO LA GRECIA DEL MITO

A SPASSO TRA LE ROVINE CERCANDO LA GRECIA DEL MITO
VENERDÌ, 31 DICEMBRE 2010 LA REPUBBLICA - Cultura

Esce il volume dedicato alla Beozia della "Guida " Il libro sorprendente di un autore che voleva ricostruire con l´immaginazione un´età perduta

A differenza di Tucidide o Erodoto che scrivevano solo episodi famosi qui ci sono piccole cronache di fatti quasi sconosciuti

PIETRO CITATI
La pubblicazione della Guida della Grecia di Pausania sta per concludersi. Nel 1982 apparve il primo volume: L´Attica a cura di Domenico Musti e Luigi Beschi. Il testo greco e la traduzione italiana erano accompagnati da un ricchissimo commento storico ed archeologico, che chiariva tutte le difficoltà, le allusioni, i passi complicati e difficili. In questi giorni esce il IX volume, dedicato alla Beozia (a cura di Mauro Moggi e Massimo Osamax, (Fondazione Valla-Mondadori pagg. CXXX 468, euro 30). Tra due anni La Guida della Grecia sarà conclusa con la pubblicazione del meraviglioso decimo libro Delfi e la Focide, vero culmine dell´opera, a cura di Domenico Musti e Mario Torelli.
Pausania è una incantevole figura minore della letteratura greca. Di lui sappiamo pochissimo: fingeva di essere pigro e mediocre: sfuggiva, si mascherava; e per tutta la vita concentrò le proprie forze nella stesura di un libro a cui dedicò una attenzione e una applicazione quasi maniacali. Nato nella parte occidentale dell´Asia minore, visse nel secondo secolo dopo Cristo, una lunga epoca pacifica, coltivando la storia e la religione. Non era greco, ma il vero tema della sua vita fu la Grecia arcaica e classica, che venerava e rimpiangeva, con la doppia nostalgia dello straniero e del sopravvissuto. Ai suoi tempi, i luoghi più famosi della Grecia erano spopolati: le regge erano carbonizzate, le tombe sconvolte, le colonne dei templi formavano selve a metà abbattute; e dal cuore della desolazione e della solitudine, nascevano lo strazio e il rimpianto con cui Pausania rievocava i templi, le gare, i riti, che avevano illuminato la patria della sua mente.
Pausania possedeva una profonda e sottilissima comprensione della civiltà greca. Tra le istituzioni greche, ne amava specialmente due. La prima era la religione di Eleusi: cioè la conoscenza suprema, che ci fa superare i limiti della vita e il timore della morte: il gesto dello ierofante che mostra agli adepti una spiga recisa: il mistero: la luce; la gloriosa processione lungo la Via Sacra. La seconda istituzione erano gli antichissimi giochi di Olimpia, che insegnano la grazia e l´armonia del corpo, la misura, la discrezione, il coraggio di sopportare tutto ciò che è duro e penoso, il dono di avvolgere di bellezza ogni aspetto della nostra esistenza.
Leggendo Omero ed Esiodo, Pausania apprese che le Muse conoscono la memoria del passato e del futuro e ispirano i poeti con un respiro profondo: mentre la poesia assorbe il flusso infinito dell´Oceano, ci dona parole dolci e soavi, nasce dal dolore ed è dolore, ci fa dormire un sonno profondissimo e quasi mortale. Era un devoto di Apollo, il dio che sovraintende alle Muse e al vaticinio. Custodì per sempre nella memoria il momento terribile in cui il giovane Dio colpì con la freccia una dracena, che cadde a terra, ansimando e gettando un urlo soprannaturale. Sebbene fosse condannato da Zeus, Apollo espiò la sua colpa, ritornò a Delfi, purificò e calmò l´animo di altri peccatori e divise l´oracolo con l´antica potenza ctonia che aveva ucciso. Niente affascinava Pausania come la luce-tenebra che derivava dagli oracoli dell´enigma.
Molti secoli prima di Pausania, Fidia ultimò a Olimpia la statua di Zeus: «Il dio, in oro e avorio, siede in trono; ha in testa una corona di ramoscelli d´ulivo. Con la destra regge una Vittoria, anche questa d´avorio e d´oro, che ha una corona sul capo; nella mano sinistra uno scettro intarsiato d´ogni sorta di metalli; l´uccello che posa sullo scettro è l´aquila». Pausania pensava che nessun artista greco fosse persuaso della perfezione delle proprie opere. Così Fidia ebbe il dubbio che la sua statua avesse calunniato Zeus, e lo «implorò perché gli inviasse un segno di conferma». Immediatamente dal cielo cadde un fulmine nel luogo dove era stata collocata la statua. Zeus aveva trionfalmente applaudito il suo artista prediletto; e con lui aveva benedetto la civiltà greca, che ubbidiva alla sovrana perfezione della forma.
* * *
Malgrado la presenza amorosa e terribile di Zeus, Apollo e delle Muse, Pausania continuava a scorgere, mentre percorreva la Grecia, soltanto paesi di deserto e di solitudine. Qualche volta, osò correggere ciò che aveva visto. Ricordava boschi e foreste, fonti, fiumi, acque sotterranee, acque che sgorgavano dalle rocce, cespugli di fragole selvatiche. L´acqua lo affascinava: perché ne conosceva la forza oracolare e mediatrice, e avvertiva, in lei, «la illimitata capacità creativa della natura». Quando era sollecitato dall´acqua, Pausania vedeva: voragini ed abissi, nei quali un tempo erano sprofondati Anfiarao e Trofonio, o erano apparsi miracolosi bambini-draghi. Il sacro era ancora lì, vivo e presente, davanti agli occhi innamorati di Pausania.
Come i suoi contemporanei, Pausania era affascinato dalla vasta risonanza di leggende, che ogni mito trascinava dietro di sé, come un´onda marina piena di alghe. Ma non sempre era certo del loro significato. Spesso confessava di non comprendere la lingua dei miti. Ora voleva tenerla segreta come quella di Eleusi: ora le parole gli sembravano inverosimili, puerili, irrispettose, troppo umane: ora il mito possedeva (come nel caso di Atteone) una feroce crudeltà intellettuale, che non osava attribuire agli dèi. Ora cadeva preda di uno strano buon senso razionalistico; ora, al contrario, capiva che il mirto era la figura più molteplice del mondo. Se avvertiva un sapore arcaico, come nelle antiche statue di divinità di legno, o nelle mura ciclopiche di Tirinto, era certo che lì, davanti a lui, splendesse oscuramente il sacro.
La Guida della Grecia di Pausania è un libro molto più piacevole e divertente di quanto si creda. Spesso sembra mancare di struttura o di architettura, mentre possiede un´architettura vaga e liberissima. Segue le strade principali che attraversano la Grecia, gira ora a destra ora a sinistra, divaga, si insinua, insegue temi lontani tra loro. Se Tucidide o Erodoto davano una versione famosa di un fatto, egli preferisce tradizioni minori o quasi sconosciute, o narrate soltanto da storici locali. Tutto ciò che è raro o strano lo incanta. Non si preoccupa di conciliare le contraddizioni. Così, quando finiremo di leggere il decimo libro della Guida, avremo imparato a conoscere una Grecia mai vista, mai immaginata.

Se Prometeo indica il futuro

Corriere della Sera 6.12.10
Se Prometeo indica il futuro
L’attualità di un testo classico che invita a riflettere sul progresso e sui limiti della scienza
La tragedia di Eschilo tradotta e riletta da Edoardo Boncinelli
di Eva Cantarella

Prometeo, figlio del Titano Giapeto, apparteneva a una stirpe divina. Ma amava molto gli esseri umani, ai quali un giorno, dopo averlo rubato agli dèi, fece dono del fuoco: lo strumento che consentì loro di intraprendere la strada del progresso, accorciando la distanza che li separava dagli immortali. Per punirlo, Zeus lo fece incatenare a una roccia agli estremi confini del mondo, immobilizzato da catene di ferro che lo serravano agli arti e al torace, condannato a subire atroci, infiniti tormenti. Così il Titano ribelle veniva rappresentato sulla scena ateniese. Così venne rappresentato, più precisamente, quando Eschilo, attorno al 470 a.C., mise sulla scena il Prometeo incatenato (parte di una trilogia per il resto andata perduta, che comprendeva, rispettivamente prima e dopo quello «incatenato», un Prometeo portatore di fuoco e un Prometeo liberato). Dei dubbi sulla autenticità della tragedia non parleremo, non solo perché questione filologica impossibile da affrontare in questa sede, ma anche e soprattutto perché quel che qui interessa, oggi, è soprattutto il contenuto dell’opera.
Rispettando la regola della «distanza tragica», secondo la quale quel che veniva portato sulla scena doveva distaccarsi dalla particolarità, dalla specificità del presente, la storia di Prometeo induceva gli ateniesi a riflettere su un tema molto importante nella Atene che, nel V secolo a.C., aveva raggiunto il massimo del suo splendore: l’incivilimento del genere umano e le conquiste del progresso, di cui gli ateniesi andavano giustamente fieri. E che oggi, a distanza di duemilacinquecento anni, è importante come forse non è stato mai. In una bella prefazione alla nuova traduzione di Edoardo Boncinelli, (Eschilo, Prometeo incatenato. L’uomo dal mito alla vita artificiale, Editrice San Raffaele, pp. 118 euro 14), Luca Ronconi (al quale si deve una splendida messa in scena del Prometeo nel teatro greco di Siracusa, nel 2002, e successivamente al Piccolo Teatro di Milano) osserva, giustamente, che «un filo percorre tutta la tragedia: che cosa accadrà domani»? E prosegue: «Se mai un’epoca si è chiesta cosa accadrà domani, questa è la nostra. Senza per ciò cercare in questa o in altre opere del passato un rapporto diretto. Sarebbe chiudere gli occhi sulla nostra contemporaneità. No, dobbiamo guardare ai grandi testi del passato come alla luce di stelle che non ci sono più. Quello che conta è l’energia originaria. Questo il loro fascino. La sola attualità è nei nostri occhi di lettori critici». E come tali appunto, sulla scorta delle parole di Ronconi, eccoci dunque a rileggere la storia del figlio di Giapeto.
Personaggio ambiguo, astuto, preveggente (come dice il suo nome «colui che sa, che vede prima») Prometeo, lo abbiamo detto, era amico dei mortali che aveva difeso a cominciare dal momento in cui Zeus, conquistato il potere, aveva preso a distribuire doni e prerogative a tutti, senza tenere alcun conto della stirpe degli umani, che voleva addirittura sterminare mandandoli nell’Ade, per sostituirli con una nuova stirpe. Donando loro il fuoco, Prometeo non li aveva solo salvati dalla distruzione, aveva consentito loro di intraprendere il camino della civiltà: prima, essi «non conoscevano case di mattoni alla luce del sole, abitavano invece come minute formiche nei recessi oscuri delle caverne»; non conoscevano l’agricoltura, né le stelle, né i numeri e i segni dell’alfabeto; non sapevano aggiogare gli animali selvatici, interpretare i sogni, solcare i mari con le navi. Non conoscevano la medicina, non sapevano come contrastare le malattie... È Prometeo stesso a fare l’elenco delle benemerenze conquistate nei confronti dell’umanità, che si conclude con una orgogliosa rivendicazione: «Tutte le arti ( technai) dei mortali vengono da Prometeo» (vv. 442-471; 476-506).
A dimostrare l’importanza del tema, nella Atene dell’epoca, sta il suo ritorno, di lì a poco, nello splendido, primo stasimo dell’Antigone di Sofocle (vv.332-375). Ma attenzione: anche se erano passati meno di trent’anni (Antigone andò in scena nel 442 a.C.), la prospettiva di Sofocle era diversa. In Eschilo, Prometeo è un eroe benefattore senza ombre. La visione eschilea del progresso è fondamentalmente ottimistica, alle origini di esso il poeta riconosce il dono di un dio: un ribelle, certo, ma pur sempre un dio. In Sofocle, invece, il rapporto tra l’essere umano e il progresso è visto in termini problematici: l’umanità ha trovato rimedio a tutto, tranne che alla morte, e «possiede, oltre ogni speranza, l’inventiva della techne, che è saggezza». Ma può prendere sia la via del bene, sia quella del male, può rivolgere la techne in due direzioni: può farne un uso giusto, ma se il suo coraggio diventa arroganza può farne un cattivo uso (vv.364-371). La civiltà e il progresso sono il frutto dell’ingegno umano. L’uomo, «la più mirabile tra quante cose mirabili esistono» (vv.333-363) guarda con orgoglio alle sue conquiste: ma sa che queste tengono in sé un pericolo. Il valore morale del progresso dipende dall’uso che l’essere umano ne fa. Il dio è scomparso. È un’etica laica, quella che Sofocle esorta i suoi concittadini a discutere, con questi versi. Un’etica che pone l’uomo davanti alla sua responsabilità. Non è un caso, certamente, che a proporci questa nuova, bella traduzione della storia di Prometeo sia uno scienziato (oltre che appassionato grecista) come Edoardo Boncinelli.

L’altra faccia di Ulisse: segreti e tradimenti di un eroe

Corriere della Sera 14.11.10
L’altra faccia di Ulisse: segreti e tradimenti di un eroe
di Eva Cantarella

«Il signore degli inganni» di Zachary Mason propone una serie di variazioni sul mito protagonista dell’Odissea

Emerso dai cumuli di immondizia disseccati di Ossirinco, un papiro pretolemaico ci ha restituito quarantaquattro succinte variazioni della storia di Ulisse: così si legge nella Prefazione a Il signore degli inganni. I libri perduti dell’Odissea di Zachary Mason (Garzanti, pp. 223, 15,60, traduzione di Laura Noulian). Una notizia che sconvolgerebbe il mondo dell’antichistica e non solo, se vera. Ma ovviamente non lo è. È un’invenzione letteraria che consente a Mason di presentare una serie di brevi racconti che parlano, o fanno riferimento, al ritorno di Ulisse dalla guerra di Troia. Di riscrivere, insomma, un’Odissea diversa da quella omerica, piena di colpi di scena e di sorprese.
A cominciare da quella di cui al primo racconto. Tornato in patria, Ulisse scopre che Penelope si è risposata. Ovviamente, che in vent’anni le cose potessero essere cambiate se l’era immaginato, e aveva pensato al peggio (la città abbandonata, Penelope morta), ma che lei avesse smesso di sperare nel suo ritorno, questo no, non se lo sarebbe mai aspettato: «Un viaggio così lungo — pensa — e tanti di quei posti in cui avrei potuto fermarmi». Una frase che l’Ulisse omerico avrebbe ben difficilmente detto.
È un personaggio molto diverso da quello che Omero ci ha insegnato a conoscere, quello dei «libri perduti», e diverse sono anche le sue avventure e le sue scelte. Giunto alla terra dei Feaci, per cominciare, sposa la figlia del re, la bella Nausicaa, sedotto non solo dal fascino di lei, ma anche e in primo luogo avendo presenti «i vantaggi di un nuovo matrimonio rispetto agli svantaggi di un mare senza sentieri» (racconto numero 23). Questo Ulisse, inoltre, grazie alla proverbiale astuzia, in una delle «variazioni» (numero 21) riesce a sposare Elena: proprio lei, la causa della guerra. E sempre grazie alla sua astuzia riesce a far sì che a Sparta, come moglie di Menelao, vada la fida Penelope (che tanto fida non era, visto che, a breve distanza dal matrimonio, trovando Menelao insopportabile, si lascia sedurre da Paride, e fugge con lui). Altra sorpresa: le disavventure di Ulisse non sono affatto dovute all’ira di Poseidone, al quale aveva accecato il figlio Polifemo. Dipendevano dal fatto che aveva osato respingere le avances di Atena, la dea sua protettrice (numero 13).
Inutile soffermarsi su altri racconti: a questo punto, le ragioni del successo del libro sono intuibili. Diventato rapidamente un caso letterario, ha entusiasmato la critica anglosassone, che lo ha giudicato (son parole di Simon Goldhill sul TLS) «forse il più rivelatore e brillante incontro in prosa con Omero, dopo James Joyce». Non è mancato chi ha avvicinato Mason a Borges, e chi leggendolo ha pensato a Calvino. E alle suggestioni e agli accostamenti letterari si potrebbe aggiungere un altro merito non da poco: i «libri perduti» aiutano a riflettere sulla natura e il valore del mito. Nati nella civiltà della scrittura, noi tendiamo a pensare ai testi come a qualcosa di immutabile, ma nelle società orali, quale fu la Grecia arcaica (e in notevole misura anche quella classica), chi ripeteva i racconti tradizionali che fornivano argomento ai miti li modificava, oltre che per seguire il proprio estro poetico, a seconda del messaggio che voleva trasmettere.
Di ogni mito esistevano infinite varianti, che a volte raccontavano storie radicalmente diverse. Un esempio fra tanti: secondo una delle versioni della sua storia Elena non aveva mai abbandonato Sparta e Menelao; secondo altri era partita per Troia, ma non vi era mai arrivata: la nave sulla quale era imbarcata era stata gettata sulle coste egiziane da una tempesta, Elena era stata condotta alla reggia di Memphis, dove era rimasta per tutto il tempo della guerra. A Troia era arrivato un eidolon, un suo simulacro fatto d’aria. Per giustificare Elena, queste versioni fanno combattere a greci e troiani una guerra decennale per una nuvola.
Quel che «i libri perduti» dell’Odissea ci ricordano è che il racconto omerico del ritorno di Ulisse è solo uno dei tanti modi di scegliere e organizzare la materia mitica, che i primi a reinventare i miti furono i greci stessi, e che è stata questa continua reinvenzione a renderli immortali. Ben venga dunque, anche per questo, questa nuova, bellissima riscrittura dell’Odissea.

Poseidone

                                                                 Poseidone

[Le temple grec : berceau du monde moderne]

[Le temple grec : berceau du monde moderne]

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Una scena della vita di Zeus


                                                         Una scena della vita di Zeus

Somnus

Somnus -

Somnus (Hypnos), è il dio del sonno, figlio della Notte insieme a suo fratello gemello Tanatos, dio della morte. Vive in un luogo sconosciuto e deserto mai raggiunto dai raggi solari. Possiede una verga magica in grado di addormentare. E' un dio benevolo ed è attorniato dai Sogni. Addormentò Giove in modo che Giunone potesse vendicarsi e far morire Eracle, ma al suo risveglio il Signore degli Dei infuriato lo fece precipitare in mare. Si salvo grazie all'intervento di sua madre. Suo figlio Morfeo è invece il dio dei sogni, che si mostrava ai dormienti assumendo varie forme; i l suo nome deriva infatti dal termine greco morphe, che significa "figura".

Teseo e i giovani greci davanti a Minosse


Teseo e i giovani greci davanti a Minosse

Ercole bambino strangola i serpenti

Ercole bambino strangola i serpenti

Apollo

Apollo
"Apollo è la divinità greca che più di ogni altra ha a che fare con i nostri tentativi di collegare il mondo diurno della veglia e quello notturno dei sogni. In breve, come tutti sapete, egli era il dio dell’oracolo di Delfi, il dio delle profezie, della guarigione, dio della giovinezza, dotato di una bellezza radiosa, molto virile, violento, carente nei rapporti con le figure femminili, uccisore di serpenti e mostri, (...) "
James Hillman

Scena del culto di Zeus

Scena del culto di Zeus

Rituale


Rituale

Particolare del Culto di Zeus


Particolare del Culto di Zeus

La bellezza di Venere

Lucio Apuleio, LA FAVOLA DI AMORE E PSICHE

La bellezza di Venere.

"Così gli parlò stringendosi forte al seno quel suo figliuolo e baciandoselo a lungo. Poi si diresse alla spiaggia vicina, là dove batte l’onda, e sfiorando con i rosei piedi le creste spumose dei fervidi flutti, ristette alfine sulla calma superficie del mare; e il mare le rese omaggio, a un suo cenno, com’ella desiderava, come se tutto da tempo fosse già stato voluto: le danzarono intorno le figlie di Nereo cantando in coro, e Portuno con l’ispida barba azzurra e Solacia col grembo colmo di pesci e il piccolo Palemone che cavalcava un delfino. Qua e là fra le onde esultavano a schiera i Tritoni,l uno soffiava dolcemente nella conchiglia sonora, un altro con un velo di seta faceva schermo all’ardore molesto del sole, un terzo sosteneva uno specchio dinanzi agli occhi della dea, gli altri nuotavano a coppie aggiogati al suo cocchio. "Un tal seguito scortava il viaggio di Venere verso l’oceano.

Scomparsa di Amore



Lucio Apuleio,LA FAVOLA DI AMORE E PSICHE
Scomparsa di Amore

"Ma mentre l’anima sua innamorata s’abbandonava a quel piacere la lucerna maligna e invidiosa, quasi volesse toccare e baciare anch’essa quel corpo così bello, lasciò cadere dall’orlo del lucignolo sulla spalla destra del dio una goccia d’olio ardente. Ohimè audace e temeraria lucerna indegna intermediaria d’amore, proprio il dio d’ogni fuoco tu osasti bruciare quando fu certo un amante ad inventarti per godersi più a lungo, anche di notte il suo desiderio. "Balzò su il dio sentendosi scottare e vedendo oltraggiata e tradita la sua fiducia, senza dire parola, d’un volo si sottrasse ai baci e alle carezze dell’infelicissima sposa.

XXIV "Psiche però, nell’attimo in cui egli spiccò il volo, riuscì ad afferrarsi con tutte e due le mani alla sua gamba destra e a restarvi attaccata, inerte peso, compagna del suo altissimo volo fra le nubi, finché, stremata, non si lasciò cadere al suolo. "Ma il dio innamorato non ebbe cuore di lasciarla così distesa a terra e volò su un vicino cipresso e dal ramo più alto con voce grave e turbata così le parlò: "’Oh, troppo ingenua Psiche, mia madre, Venere, mi aveva ordinato di farti innamorare del più abbietto, dell’ultimo degli uomini e a lui darti in isposa; io invece le ho disubbidito e son volato a te per essere io stesso il tuo amante: stata una leggerezza, lo so, e mi sono ferito con il mio stesso dardo, io, famosissimo arciere, e ti ho fatto mia sposa perché tu, pensandomi un mostro, mi troncassi col ferro questo capo che reca due occhi innamorati di te. "’Eppure quante volte ti ho detto di stare in guardia, con che cuore ti ho sempre ammonita. Ma quelle tue brave consigliere presto faranno i conti con me per i loro suggerimenti funesti; quanto a te, basterà la mia fuga a punirti.’ E con queste parole aperse le ali e si levò nel cielo.

Psiche vede Amore

Psiche vede Amore.

XXII "Allora a Psiche vennero meno le forze e l’animo; ma a sostenerla, a ridarle vigore fu il suo stesso implacabile destino: andò a prendere la lucerna, afferrò il rasoio e sentì che il coraggio aveva trasformato la sua natura di donna. "Ma non appena il lume rischiarò l’intimità del letto nuziale, agli occhi di lei apparve la più dolce e la più mite di tutte le fiere, Cupido in carne e ossa, il bellissimo iddio, che soavemente dormiva e dinanzi al quale la stessa luce della lampada brillò più viva e la lama del sacrilego rasoio dette un barbaglio di luce. "A quella visione Psiche, impaurita, fuori di sé sbiancata in viso e tremante, sentì le ginocchia piegarsi e fece per nascondere la lama nel proprio petto, e l’avrebbe certamente fatto se l’arma stessa, quasi inorridendo di un così grave misfatto, sfuggendo a quelle mani temerarie, non fosse andata a cadere lontano. "Eppure, benché spossata e priva di sentimento, a contemplare la meraviglia di quel volto divino, ella sentì rianimarsi. "Vide la testa bionda e la bella chioma stillante ambrosia e il candido collo e le rosee guance, i bei riccioli sparsi sul petto e sulle spalle, al cui abbagliante splendore il lume stesso della lucerna impallidiva; sulle spalle dell’alato iddio il candore smagliante delle penne umide di rugiada e benché l’ali fossero immote, le ultime piume, le più leggere e morbide, vibravano irrequiete come percorse da un palpito. "Tutto il resto del corpo era così liscio e lucente, così bello che Venere non poteva davvero pentirsi d’averlo generato. Ai piedi del letto erano l’arco, la faretra e le frecce, le armi benigne di così grande dio.

XXIII "Psiche non la smetteva più di guardare le armi dello sposo: con insaziabile curiosità le toccava, le ammirava, tolse perfino una freccia dalla faretra per provarne sul pollice l’acutezza ma per la pressione un po’ troppo brusca della mano tremante la punta penetrò in profondità e piccole gocce di roseo sangue apparvero a fior di pelle. Fu così che l’innocente Psiche, senza accorgersene, s’innamorò di Amore. E subito arse di desiderio per lui e gli si abbandonò sopra e con le labbra schiuse per il piacere, di furia, temendo che si destasse, cominciò a baciarlo tutto con baci lunghi e lascivi.

nel disegno: Psiche vede Amore

Psiche incontra il dio Pan.



Psiche incontra il dio Pan.

Da terra ove giaceva, Psiche seguì il volo dello sposo finché poté vederlo e, intanto, si sfogava in gemiti angosciosi; ma quando nel suo rapido volo egli si fu sottratto alla vista di lei, perdendosi lontano nello spazio, ella corse alla riva del fiume più vicino e a capofitto vi si gettò; ma il buon fiume, devoto al dio che suole accendere d’amore anche le acque e temendo per sé, senza farle alcun male la sollevò su un’onda e la depose sulla riva fiorita. "Per fortuna che Pan, il dio dei campi, se ne stava seduto proprio lì, sulla sponda del fiume, con Eco fra le braccia, la dea dei monti e le insegnava a cantare le melodie più varie, mentre le capre, qua e là, lungo la riva saltando, brucavano l’erba che la corrente lambiva "Il dio caprino appena vide Psiche così distrutta e affranta, poiché non era ignaro delle sue sventure, la chiamò dolcemente a sé, confortandola con buone parole: "’Figliola cara,’ cominciò a dirle ‘io non sono che un villano, un rozzo pastore, però di esperienza ne ho tanta dato che sono vecchio ormai. Quindi se vedo chiaro - in fondo in questo consiste, secondo quelli che se ne intendono, l’essere profeti - dal tuo passo vacillante, dal pallore estremo del tuo viso, da quel sospirare continuamente e soprattutto dai tuoi occhi così tristi, devo arguire che un amore violento ti tormenta. Dammi retta, allora, non provarci più a gettarti nel fiume, né cercare la morte in altro modo. Cessa di piangere, scaccia il dolore e mettiti piuttosto a pregare Cupido, il più potente degli dei: giovane, sensibile e vagheggino com’è, lusingalo con dolci voti.’

Lucio Apuleio, LA FAVOLA DI AMORE E PSICHE

nel disegno: Psiche incontra il dio Pan

Eros tra Elpis e Nemesis

Eros tra Elpis e Nemesis

PSICHE



PSICHE rappresentata da Apuleio (nella favola "L'asino d'oro" libro IV, XXXII) come una fanciulla di rara bellezza ("Metamorfosi", IV-VI). Rapita da Zefiro, visse in un palazzo d'oro. Fu amante di Eros, da cui ebbe una figlia (Voluttà). L'amore durò fino a quando Psiche, contravvenendo ad un patto sacro, cercò di scorgere il volto di Eros (invisibile amante). Abbandonata, fu sottoposta a una serie di dure prove da Afrodite, (che invidiava la sua bellezza). Resa immortale da Zeus, mosso a compassione, si unì nuovamente ad Eros. Il mito di Psiche ha ispirato artisti di ogni epoca (Raffaello, Van Dyck, Canova, Gibson, ecc.). Dal significato di Soffio, è l'equivalente del concetto di anima. Secondo alcuni autori antichi l'anima si distingue in anima sensitiva e anima intellettuale; l'anima sensitiva è¨ prerogativa dell'uomo vivo mentre la seconda si forma in punto di morte a somiglianza del defunto dalla cui bocca o ferita mortale esce ed abbandona il corpo. Anche le arti figurative rappresentano l'anima umana sotto forma di un'essere alato o di un'uccello col volto umano. Da queste astrazioni nacque la favola di Psiche e Amore.

nel disegno: Psiche

Era (Hera)

Era (dal greco Hera) antica divinità lunare venerata ad Argo; più tardi, ma molto prima di Omero, considerata regina del cielo. Come tale la si ritenne figlia di Crono e di Rea, sorella quindi di Zeus di cui divenne sposa. Fu madre di Ares, di Efesto, di Ebe. Di matronale bellezza, di impeccabili costumi, proteggeva la castità del matrimonio e la santità del parto. Fu dai Romani assimilata all'italica Giunone. Già in Omero si trasforma in moglie gelosa che perseguitava le amanti di Zeus, orgogliosissima, nemica acerrima dei Troiani a causa del giudizio di Paride.
Le erano sacri il pavone, la cornacchia e la melagrana; aveva come messaggeri Iride e le Ore. Ebbe culto speciale ad Argo Era Argiva, a Samo, nella Magna Grecia e soprattutto sul promontorio Lacinio Era Lacinia.

nel disegno: Era

Il demone meridiano

“Coloro che si addormentano a mezzogiorno rischiano di subire, nel corso di incubi di un genere del tutto particolare, l’aggressione di esseri demoniaci, aggressione che comporta turbe fisiche e mentali ben definite. Queste turbe sono attribuite a Pan e alle Ninfe o ai loro sostituti. Se attribuite a Pan, si ha a che fare con un complesso di sensazioni e rappresentazioni che costituiscono l’incubo propriamente detto, nel senso antico del termine. Se attribuite alle Ninfe e, in epoca ellenistica, a creature che all’origine avevano già per conto loro rapporti stretti con l’ora di mezzogiorno, e che ora assumono caratteristiche simili a quelle delle Ninfe (ossia le Sirene), sembra che ci si trovi piuttosto di fronte a un altro fenomeno onirico (ονειρογμός, somnium Veneris) già definito dagli antichi e dotato di proprie ripercussioni mitologiche. I due temi sono d’altronde pressocchè paralleli, entrambi fortemente tinti di erotismo. Sono in sostanza i corrispondenti antichi delle credenze, quasi universalmente attestate, negli incubi e succubi”.
Roger Caillois, I Demoni meridiani

Selene

SELENE Dea della luna e sorella di Elio. Ebbe delle avventure con Endimione, Pan e con Zeus col quale generò Pandia la lucente, personificazione del chiarore del plenilunio.
Selene si innamorò del pastore Endimione; questi, condannato da Zeus ad un sonno di 30 anni, dormiva in una grotta, e Selene di tanto in tanto abbandonava il cielo per unirsi a lui: in quel periodo (luna nuova) il mondo è privato della luce lunare.

nel disegno: Inno a Selene di Albert Thomas

Abbondanza

ABBONDANZA
Divinità allegorica che avrebbe accompagnato nell'esilio Crono, quando Zeus gli tolse il regno e lo bandì dall'Olimpo. Essa non ebbe mai né templi né altari né culto.
Negli antichi monumenti, essa è raffigurata da una giovane ninfa piuttosto pingue, il volto acceso di vivi colori, la testa cinta di una ghirlanda di fiori e di frutta, reggendo nelle braccia uno dei corni della capra Amaltea, ricolmo di vari prodotti della terra.
Gli scrittori antichi, nel rappresentarla, le fanno sparpagliare con la mano sinistra le spighe, e la vestono d'una tunica verde ricamata in oro.
Il nome greco di questa divinità è da identificare con quello di Eutenia.

Arianna


ARIANNA Figlia di Minosse e sorella del Minotauro e di Fedra. Innamoratasi di Teseo che per liberare la sua città dal mostruoso tributo imposto da Minosse (dovevano ogni anno dare sette fanciulli e sette fanciulle come pasto per il Minotauro) aveva deciso di ucciderlo. Senz'altro sarebbe stato destinato a fallire se non fosse stato aiutato da Arianna che gli avrebbe dato un gomitolo di filo da sbrogliare lungo il tortuoso cammino nel labirinto alla ricerca del Minotauro, incontratolo lo uccise con un colpo di mazza. Teseo così guidato dal filo di Arianna potè facilmente uscire dal labirinto e imbarcarsi per fare ritorno vittorioso ad Atene con Arianna. Sbattuti da una tempesta sull'isola di Nasso, vi sbarcarono e mentre Arianna riposava sull'isola, Teseo nell'intento di assicurare meglio gli ormeggi della nave fu trascinato via dalla tempesta lasciando così la povera Arianna sull'isola. Bacco di ritorno da un giro in India incontrò Arianna a Nasso e innamoratosi di lei la fece sua sposa e la pose per onorarla fra le stelle del cielo.

Pandora

PANDORA
Fu la prima donna creata da Efesto per ordine di Zeus che volendo punire gli uomini per avere ricevuto da Prometeo il fuoco sacro. Gli dèi si misero all'opera e crearono la donna che Ermes chiamò Pandòra, gli diedero un vaso chiuso e la mandarono come dono a Epimeteo fratello di Prometeo. Pandòra aveva avuto l'ordine di non aprire mai il vaso ma la curiosità di vedere cosa c'era dentro era così grande che la donna aprì il vaso facendo così uscire tutti i mali, soltanto Elpis la Speranza restò dentro perché Pandora riuscì a mettere nuovamente il coperchio sul vaso.

Narciso


Narciso
Figlio della ninfa Lirìope e del dio fluviale Cefìso. Ragazzo dalla bellezza indescrivibile. Di lui si innamorò la ninfa Eco, lui non volle corrisponderla e la povera ninfa si ridusse a un'ombra e non rimase altro che la voce. Nemesi la dea che puniva le colpe e le debolezze degli uomini, commossa per la fine della ninfa decise di vendicarla e per fare ciò condusse Narcìso ad una fonte dalle acque limpidissime che rifletterono l'immagine del giovane, il quale vedendo la sua immagine riflessa se
ne innamora e non vuole più lascialrla finché non muore. Fu da Nemesi mutato nell'omonimo fiore che fu poi consacrato alle Erinni.

Marsia

MARSIA Satiro, famoso suonatore di flauto che a quanto pare suonava lo stesso flauto inventato da Atena e che la dea buttò via quando si accorse che suonandolo gli venivano le guance gonfie e modo grottesco. Marsia suonava così bene che tutti dicevano che neanche Apollo con la sua lira avrebbe potuto suonare di meglio. Il dio risentito e offeso in quello che era la sua arte sfida il povero Marsia in una gara musicale dove il vincitore avrebbe potuto punire il vinto nel modo che più gli gradiva. Il satiro ingenuamente accettò la sfida e come era presumibile considerato che a giudicare erano le Muse, che erano legate ad Apollo, Marsia perse. Apollo ancora offeso lo legò ad un albero e lo scorticò.

Orione

ORIONE Viveva a Tanagra un uomo di nome Irieo, che inconsapevolmente ospitò nella sua capanna Zeus, Poseidone ed Ermes. Irieo ospitò molto caldamente i tre viandanti che prima di ripartire gli chiesero quale era il suo più grande desiderio e il vecchio rispose che desiderava un figlio ma considerata la sua età non riusciva a generarlo. Gli Dei presero un'otre e la riempirono della loro orina e ordinarono a Irieo di sotterrarla. Dopo dieci mesi ne venne fuori un gigante che venne chiamato Orione in ricordo di come fu generato. Questo gigante era ritenuto il più bello dei mortali, innamoratosi di Merope, figlia di Enopione che a sua volta era figlio di Dioniso. Orione chiese a Enopione la mano della giovane, che si dimostrò disposto a condizione che egli avesse liberato l'isola dalle belve che la infestavano. Orione da bravo cacciatore non ebbe difficoltà e sterminate le fiere va a chiedere il suo compenso ma Enopione rifiutò di rispettare il patto. Orione incavolato prese un'otre di vino e la bevve per dimenticare, ma ubriacatosi penetrò nella stanza di Merope e la violentò. Enopione allora chiese a Dioniso che era suo padre di vendicarlo, il dio ordinò ai Satiri di ubriacarlo fino a farlo addormentare, allora Enopione lo accecÃò. Un oracolo disse ad Orione che per recuperare la vista se avesse potuto volgere le orbite ad Elio sorgente dall'Oceano. Facendosi guidare da uno dei garzoni di Efesto, un certo Cedalione, giunse sulle rive dell'Oceano e riebbe da Elio la vista. Orione acquistata la vista parte alla ricerca della vendetta, tornato a Chio non trova Enopione che preventivamente si era nascosto in un rifugio fattogli da Efesto. Allora credendo che il suo nemico si fosse nascosto da Minosse, Orione andò a Creta e non trovandolo neanche lì , si mise a cacciare e minacciava di sterminare tutti gli animali, allora Madre Terra per evitare la strage mandò un'enorme Scorpione che lo uccise. Orione data la sua origine divina fu portato in cielo nella omonima costellazione.

Eolo e Borea

EOLO Dio dei Venti, abitava nell'isola di Lipari e teneva chiusi i venti in una caverna.

BOREA Figlio di Astreo e di Eos. Era il vento del nord e re dei venti, fratello di Zefiro, Noto e Apeliote (Euro). Veniva raffigurato come cavallo o come uomo barbuto con i capelli scomposti, alato e con due facce. Sotto la forma di cavallo si godette le cavalle di Eretteo. Borea si godette anche la figlia di Eretteo, Orizia, che rapitala mentre questa giocava sulle rive del torrente Ilisso, la possedette e da lei ebbe due figli Calai e Zete, gemelli alati.

Giasone

GIASONE Figlio di Esone che venne privato dal fratellastro Pelia del trono di Iolco, in Tessaglia. Fu affidato alle cure del centauro Chirone; poi, raggiunta l'età adulta, tornò a reclamare il regno che era stato del padre. Pelia accettò di consegnarglielo a patto che prima portasse a Iolco il vello d'oro, che era in possesso del re Eeteo di Colchide e sorvegliato da un dragone sempre all'erta. Giasone intraprese così la famosa spedizione sulla nave Argo, seguito dal fior fiore della gioventù ellenica, rientrando in patria col vello d'oro e la sposa Medea. Ma intanto Pelia aveva ucciso il padre Esone, per vendicare il quale l'eroe si avvalse delle arti magiche della moglie. Costretta ad abbandonare Iolco, la coppia si stabilì a Corinto dove, dopo dieci anni, Giasone abbandonò Medea per Creusa, figlia di Creonte re della città. La fine dell'eroe è controversa. Alcune fonti riferiscono che morì per il dolore provocato dalla morte dei figli soppressi per vendetta da Medea, altre che rimase ucciso sotto la carena della nave Argo, all'ombra della quale si riposava quando ormai era già rientrato in possesso di Iolco.

Arpie

ARPIE Mostri con testa, busto e braccia di donna e il resto del corpo di uccelli rapaci con ali e artigli. Erano figlie di Taumante e di Elettra. Esse ricorrono anche nella legenda degli Argonauti che le misero in fuga. I loro nomi erano Celeno Oscurità, Ocipete dal volo rapido e Aello apportatrice di tempesta. Il termine Arpia pare provenga dal greco harpazein che significa rapire con impetuosa violenza. La loro residenza fu il giardino delle Esperidi da dove gli Argonauti le fecero fuggire e quindi andarono nelle isole Strofadi. Esse personificavano la morte violenta e trasportavano in volo le anime dei defunti nell'aldilà.

Cibele

CIBELE Altro nome di Rhea, sposa di Crono e quindi madre di Hestia o Vesta, Demetra o Cerere, Hera o Giunone, Hades o Plutone, Poseidone o Nettuno, Zeus o Giove. Personificazione della Madre Terra, protettrice della vegetazione e della agricoltura.Dea della terra feconda, chiamata la Gran Madre degli dei, identificata con Rea, probabilmente di origine frigia. Aveva tanti nomi quanti erano i luoghi nei quali si adorava. Così era detta Pessinunzia, Idea, Dindimea, Berecinzia, dalle città di Pessinunte e Berecinto e dai monti Ida e Dindime, tutti nella Frigia. S'innamorò del pastore Attis e lo tramutò in pino. Il suo culto si diffuse in Grecia e poi a Roma verso la fine del III sec. a.C. I suoi sacerdoti Coribanti e Galli usavano evirarsi per ricordare il gesto dell'infedele Attis, che s'era così punito. Veniva raffigurata come una matrona seduta in trono fra due leoni. A Roma era chiamata Magna Mater Deum Idaea.

ATLANTE

ATLANTE gigante figlio di Giapeto per aver aiutato gli altri giganti nella rivolta contro Zeus, fu condannato a reggere il peso del mondo sulle spalle. Egli possedeva il giardino delle esperidi, dove maturavano i famosi pomi d'oro. Prima che Zeus lo condannasse a quella triste pena, ebbe il tempo di avere una numerosa discendenza. figlie sue furono le Pleiadi avute da Pleione, da Etna ebbe le Iadi, da Esperide le Esperidi.

Caronte

CARONTE figlio di Erebo e della Notte, traghettava le anime dei defunti attraverso l'Acheronte nel Tartaro. Sulla barca di Caronte potevano salire solo coloro che erano stati seppelliti e dovevano pagare un obolo moneta alla portata di tutte le tasche. Da tale leggenda deriva l'usanza degli antichi Greci di porre una moneta nella bocca dei cadaveri.

Euripide, Le tragedie, Bologna 1940, vv. 357-362, p. 142

Oh mi fossero date le parole ed il canto di Orfeo, sì da incantare con essi la figlia di Demetra (Persefone) e il suo sposo! Allora io scenderei a prenderti nell’Ade, e né il cane di Plutone, né il rematore Caronte che trasporta i morti, riuscirebbero a impedire che io riportassi la tua vita al sole. E dunque aspettami là, se mai io muoia, e prepara la casa, certa che ancora vivrai con me.


Pan

PAN
Dio dei pastori e dei greggi. Di Pan ne esistevano diversi, infatti ogni generazione di dei aveva il suo Pan. I Greci per distinguerli li chiamarono in modo diverso in base al loro padre, Ermopan da Ermes, Diopan da Zeus, Titanopan dai Titani. Il più famoso rimane Ermopan, quando Ermes fece il pastore per conto di Driope e innamoratosi di una delle ragazze di questi, la mise incinta. Certamente il nome viene da Paian Pascolare. Pan vagava per monti, valli e boschi, zufolando e seguito da tanti Paniskoi e dalle ninfe. Grande amante del sesso ebbe numerose avventure con diverse ninfe tra le quali Eco ed Eufeme con la quale genera il Sagittario dello zodiaco. Si vantava di avere fatto l'amore con tutte le Menadi. Il suo più grande amore fu rivolto a Selene ma la dea non gradiva quel dio sporco e peloso, allora Pan nascose la sua figura sotto delle pelli bianche e profumate, Selene non riconoscendolo accettò di cavalcarlo e si fece fare tutto quello che a Pan piacque. Pan era un dio bonario che aiutava chiunque avesse bisogno di lui. Insegnò ad Apollo l'arte del vaticinio. Il dio non sopportava di essere disturbato durante il riposo pomeridiano, se ciò avveniva Pan si alzava in piedi ed emetteva degli urli terrificanti tanto da creare il timore panico.
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A PAN
O Musa celebra il figlio diletto di Ermes,
dal piede caprino, bicorne, amante del clamore, che per le valli
folte di alberi si aggira insieme con le ninfe avvezze alla danza:
esse amano calcare le cime delle impervie rupi
invocando Pan, il dio dei pascoli, dall’ abbondante chioma,
irsuto, che regna su tutte le alture nervose
e sulle vette dei monti, e sugli aspri sentieri.
Si aggira da ogni parte tra le folte macchie :
ora è attirato dai lenti ruscelli,
ora invece s’inerpica fra le rupi inaccessibili
salendo alla vetta più alta da cui si scorgono le greggi.
Spesso corre attraverso le grandi montagne biancheggianti,
spesso muove fra le colline, e fa strage di fiere,
scorgendole col suo sguardo acuto; talora, al tramonto, solitario
tornando dalla caccia, suona modulando con la siringa una musica
serena: non riuscirebbe a superarlo nella melodia
l’uccello che tra il fogliame della primavera ricca di fiori
effonde il suo lamento, e intona un canto dolce come il miele.
Con lui allora le ninfe montane dalla limpida voce
girando col rapido batter di piedi presso la sorgente dalla acque cupe
cantano, e l’eco geme intorno alla vetta del monte.
Il dio, movendo da una parte all’altra, talora al centro della danza,
la guida col rapido batter di piedi –sul dorso ha una fulva di pelle
di lince-, esaltandosi nell’animo al limpido canto,
sul molle prato dove il croco, e il giacinto
odoroso, fioriscono mescolandosi innumerevoli all’erba.
Cantano gli dei beati e il vasto Olimpo;
per esempio del rapido Ermes, eminente fra gli altri,
narravano: come egli sia messaggero veloce per tutti gli dei,
e come venne all’Arcadia ricca di fonti, madre di greggi,
là dove ha il suo santuario cillenio.
Colà, pur essendo un dio, pascolava le greggi dal ruvido vello
presso un mortale: poiché lo aveva preso, e fioriva in lui, un desiderio
struggente
di unirsi in amore con una fanciulla dalle belle trecce, figlia di Driope .
E ottenne il florido amplesso; ed ella, nelle sue stanze, generò
a Ermes un figlio diletto, già allora mostruoso a vedersi,
dal piede caprino, bicorne, vociante, dal dolce sorriso.
Diede un balzo e fuggì la nutrice, e abbandonò il fanciullo.
si spaventò, infatti, come vide quel volto ferino e barbuto.
Ma subito il rapido Ermes lo prese fra le braccia ,
accogliendolo: grandemente il dio gioiva nell’animo.
Senza indugio salì alle dimore degl’immortali, dopo aver avvolto il fanciullo
nella folta pelliccia di una lepre montana ;
lo depose al cospetto di Zeus e degli altri immortali,
e presentò suo figlio : si rallegrarono nell’animo tutti
gl’immortali, ma più d’ogni altro il baccheggiante Dioniso;
e lo chiamarono Pan, poiché a tutti l’animo aveva rallegrato.
Cosi ti saluto, signore, e ti rendo propizio col mio canto:
ed io mi ricorderò di te, e di un altro canto ancora.

Inno Omerico A Pan

Muse


MUSE I Romani assimimilarono le Muse con le loro antiche divinità locali chiamate Camene e che erano ninfe delle sorgenti e delle acque venerate presso il boschetto di Porta Capena. Figlie di Zeus e di Mnemosine (che significa Memoria). Il sommo dio si unì per nove notti con la dea figlia di Urano e di Gea. Allo scadere della gestazione la dea partorì (nella Pieria ai piedi dell'Olimpo) nove bimbe: le Muse che presiedevano alla bella arte della musica. Esse erano: Clio ispiratrice della storia, Euterpe la rallegrante, Talia la festosa, Melpomene la cantante, Tersicore che gode della danza, Erato stimolatrice di nostalgie, Urania la celeste, Polinnia la ricca di Inni e Calliope dalla bella voce. Le Muse erano invocate dai poeti come ispiratrici dei loro canti. Chi osava offenderle veniva severamente punito, come le figlie di Pierio, re della Tessaglia. Questi aveva nove figlie che hanno voluto gareggiare con le Muse nel canto e furono mutate, come racconta Ovidio in rauche gazze. Da questo evento le Muse a volte vengono chiamate Pieridi.

Prometeo

PROMETEO Titano figlio di Giapeto e di Climene figlia di Oceano. In origine era solamente un Titano intelligente che riuscì ad ingannare Zeus, ma successivamente fu trasformato nel creatore e salvatore del genere umano mentre Zeus appare come un crudele tiranno. Quando i Titani sfidarono Zeus e vennero da lui imprigionati nel Tartaro, Prometeo che aveva il dono di vedere il futuro, suggerì loro di usare l'astuzia ma i Titani ignorarono il suo consiglio e allora passò dalla parte di Zeus. Dopo la battaglia Prometeo si trova a scontrarsi con Zeus sul problema del genere umano. Per Esiodo fu Prometeo a creare l'uomo con la creta trovata a Panopea, modellando le figure in cui Atena poi soffiava la vita. Essendo Zeus irato col genere umano aveva deciso di distruggerlo e sostituirlo con delle creature migliori e comincia a togliere loro il fuoco e ad affamarli chiedendo loro le parti migliori di cibo nei sacrifici. Nella disputa sorta per stabilire quali parti di toro sacrificare agli dei e quali tenere per sè, Prometeo fu chiamato a fare da arbitro, per cui smembra un toro e ricuce la pelle formando due sacche che riempì con le varie parti dell'animale. Una sacca conteneva la carne ben nascosta sotto lo stomaco e l'altra conteneva invece le ossa nascoste sotto un grosso strato di grasso e presentate le sacche a Zeus gli chiese di scegliere quale volesse e il dio tratto in inganno scelse la sacca col grasso e le ossa che da quel giorno divennero le parti da sacrificare agli Dei. Zeus irato per l'inganno priva gli uomini del fuoco ma Prometeo andrà di nascosto sull'Olimpo e rubò una brace che nascose nel cavo di un fusto di finocchio e che dona agli uommini. Sempre incurante dei castighi di Zeus, Prometeo insegna agli uomini molte arti, fra le quali la metallurgia e tolse agli uomini il potere di vedere il futuro pensando che tale potere avrebbe spezzato il cuore degli uomini. Zeus durante la notte vide la terra coperta da tantissime luci e arrabbiato più che mai manda i suoi servi Bia e Crato assieme a Efesto a catturare Prometeo e a incatenarlo sul monte Caucaso, dove ogni giorno un avvoltoio gli mangiava il fegato, ma considerando che Prometeo era un Titano e perciò immortale, la notte il fegato gli rinasceva per essere rimangiato il giorno successivo. Prometeo anche se incatenato e costretto a subire l'orribile supplizio, scherniva Zeus perchè era conoscenza di un terribile segreto sulla sorte del dio supremo. Dopo tanto tempo ottenne la liberta in cambio del segreto che impedì al dio di sposare Teti, perchè gli avrebbe dato un figlio che sarebbe diventato più potente del padre e l'avrebbe spodestato proprio come fece Zeus col padre Crono. Prometeo era venerato nell'Attica come dio delle arti.

nel disegno: Prometeo

Apollo



APOLLO Senza dubbio dopo Zeus, Apollo è il dio più importante della mitologia greca. Il mito di Apollo è legato a quello di Artemide (sorella gemella di lui) con le differenze sessuali ed ha un carattere parallelo. Latona sedotta da Zeus pellegrina a lungo sulla terra per sfuggire all'ira di Era, nessuno volle ospitarla per timore della vendetta della tremenda dea, finalmente giunse a uno scoglio errante sul mare che la ospita e in prossimità del parto lo scoglio si fissa al fondo marino con delle colonne diventando così l'isola di Delo. Assistita dalla dea Iride Latona partorì i due gemelli Apollo e Artemide dopo un lungo e laborioso travaglio. Le due divinità hanno un che di misterioso e inavvicinabile che incute rispetto, entrambi munite di arco colpiscono da lontano e chi è colpito dai loro dardi muore senza soffrire. Apollo rappresenta l'autocontrollo, l'autoconoscenza e il senso della misura nel suo tempio a Delfi stava scritto Conosci te stesso. Egli si occupa anche delle espiazioni, delle purificazioni, delle guarigioni e tale compito gli rimane anche dopo avere dato le sue proprietà mediche al figlio Asclepio. Apollo è anche un dio profetico e dio del giusto e della purezza ed anche della musica difatti viene rappresentato con la lira a capo delle Muse. Esso venne identificato anche con Elio e veniva immaginato alla guida d'un carro tirato da quattro cavalli e col quale conduceva il Sole per il cielo. Identificato come un giovane bellissimo e nudo. Il centro del suo culto era Delfi dove c'era anche il suo famoso oracolo e dove ogni quattro anni si celebravano in suo onore i giochi pitici. I romani lo venerarono come protettore della salute e come dio della divinazione in suo onore celebravano i giochi detti Ludi Apollinares.
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nel disegno: Apollo e le Muse

Plutone con Proserpina

Plutone con Proserpina

Ipotesi di ricostruzione di una cerimonia ad Eleusi



«Felice colui, tra gli uomini viventi sulla terra, che ha visto queste cose! Chi invece non è stato iniziato ai sacri misteri, chi non ha avuto questa sorte non avrà mai un uguale destino, da morto, nelle umide tenebre marcescenti di laggiù.»
dagli Inni Omerici