In limine: la necessaria Afrodite

IN LIMINE: LA NECESSARIA AFRODITE 

“La sfera d’influenza di Afrodite è data nel modo più diretto e tangibile: la soddisfazione delle gioie del sesso. “
WALTER BURKERT 

Nata dai vortici schiumosi dell’acqua marina e dallo sperma volante del Cielo, da una dolorosa e sanguinosa irruenza troncata dalla falce di Crono, ma che sfiniva in estasi, nell’equorea deriva egea, sulla rotta che porta da Citera a Cipro (sino al verdeggiante patio chiuso dai sacri recinti di Pafo), era la dea — l’unica vera dea — di Saffo. Lancinante bellezza che spezza il cuore e, insieme, gioia che spesso si involve in tormento: Afrodite. 
Colei che senza requie smuove il bene e il male del tutto, che folgora con l’occhio bruno e trafigge l’opaca inconsistenza quotidiana — l’insipiente apatia o il torpido rituale burocratico/esistenziale — di ogni vita (se ‘vita “, senza lei, può dirsi) vegetale, animale, umana: per sostanziarla di sé. Per accendervi il fuoco di un significato. Che resta tale anche quando si è fatto soltanto memoria estrema di sepolta brace; o che è già fiamma timida quando, ancora, in un ‘indistinta attesa, appena se ne avverte il primo, inquieto crepitare. 
Era (lo è ancora? lo sarà per sempre, sino al giorno in cui il friabile sempre degli uomini durerà?) ciò che dà il solo possibile senso all’insensata guerra e alla precaria pace. Ciò che ad uso di Omero innescò le trame corrusche e le morbide pause della spedizione distruzione e strage di Ilio/Troia. Che inventò l’abbraccio vincolante di Circe, il sogguardare oblioso di Calipso, il trepidare urgente di Nausicaa. Nerbo della vendetta di Medea e della ferocia di Clitemnestra, amaro sale del la pazienza di Penelope e del lutto di Andromaca, pruriginosa spezia del delirio di Fedra o del lamento di Cassandra. Fulgore invitto di superba cagna: che intrise di charme la forma per fetta di Elena, sposa sgualdrina. 
Era Afrodite insomma ciò che illuminando con la realtà sensibile del mito la transeunte irrealtà della nostra vita, offrendole effimero ma sanguigno e storico corpo, per grazia e disgrazia della ragazza Saffo — finché crescendo sino a farsi donna e quindi consumandosi, resse al suo esigente e divino, troppo divino diktat —, ne alimentò i deliqui dolcissimi e le esaltazioni stordite, come il più solitario e avvinghiante strazio. Mescolandovi ira, invidia e gelosia: al punto che su tale smagliante e sconvolgente cocktail, finì per spumeggiare (e parve miracolosa, poiché era la prima volta che si udiva) l’iridescenza dolceamara del canto: della poesia che dice, sincera mente, io... 
Si mostrava in terra la lirica che solo il subdolo forcipe di Afrodite avrebbe saputo e potuto trarre alla luce, simulando in termini quasi popolareschi un parto ovvio e indolore, e che indolore continua a parere a chi insiste a credere, con candida supeficialità o asessuato studio, che il midollare amplesso d’amore e morte sia un’ebbra e immatura (o decadente e manieristica) fantasticheria romantica. Era invece la lirica (di sangue nero e lampi di diamante) che è in tutti e di tutti: servita e disservita nel calice del desiderio, con alterna crudeltà e ammiccante compiacenza, dal barman/folletto, detto da Esiodo “bellissimo “.  Eros: di cui sappiamo l’arte di trasformista mistico o triviale, di travestito dai paludamenti carnascialeschi dello snobismo intellettuale o dell’illetterata svenevolezza. Reticente o espanso pornografo, mandolinista o vampiro, menèstrello o satiro. 
Eros: che era stato ben altro. Ma la cui astratta forza, la cui muta potenza e virtù di furiosa congiunzione, si ridusse presto a casalingo strumento dell’eternamente giovanissima Signora, Afrodite: di Cipride o Citerea, santa e insieme tenera mente scandalosa — volage e imperiosa — Signora..Egli in verità stava all’origine del mondo formato, dell’universo Cosmo: ma dopo ch ‘ebbe fecondato per impulso proprio il vuoto Caos, primordiale e infinito, e accoppiato l’Etere chiaro al fosco Erebo, la Notte al Giorno, il Cielo stellato alla fertile Terra, ormai non fu più (non è più) che l’alato capriccio, il valletto/trastullo, il servo/fanciullo (ora succube ora tracotante), la maliziosa e indefettibile scorta: al seguito e ai servizio di Afrodite. Cosa soltanto sua. 
Eros che trascolora: che è maschio o femmina o androgino, a suo gusto. O giovane o vecchio. Che muta maschera. Che al ghigno beffardo fa succedere il riso soave del più seducente incanto: rosa e spina, piuma sdolcinata e turbine losco. Efebo o virago, ninfa o tritone, bimba chiacchierina o adusto atleta, danzatrice procace o pudibondo ipocrita: regolarmente a cavaliere d’ilari turbamenti e indicibili disastri. Fugace e livida faccia di ogni triste mezzanotte, o meridiana febbre, felicità solare. Ma comunque asservito a Afrodite, suo schiavo astuto e intemperante complice. 
Il garbo che amiamo e che ci vuole (che ci dovrebbe sempre fare compagnia, riteniamo) per vivere (e convivere) decentemente, non ci impedisca mai di dire la banale verità, una fra le poche che, se onesti, dovremmo sapere: di dire che la vita, tra nascita e morte, è sesso. Di dire che è Afrodite. Che aphrodizéin (dal tempo in cui il tempo si è fatto consapevole e deperibile tempo, allo sguardo impietoso della neonata intelligenza greca) vuol dire ‘far l’amore”; che gli aphrodisia non sono altro che i giochi, i viluppi, gli intrecci,  gli amabili e forti sfoghi dei corpi in amore. Le “carezze profonde”  di Saffo: il cui oggetto più o meno diverso non ha rilievo in sé, poiché rilievo esse hanno già di per sé.
Né il medesimo garbo ci vieti di aggiungere che Afrodite non è compiutamente se stessa, se non incoronata e accompagnata dal proprio eccitante (“afrodisiaco”) corteggio: Eros in testa. E poi Himeros (o “brama”), suo congiurato fratello, giocoliere di voglie nascenti o rinascenti. E quindi le ragazze della grazia (della Chàris), le Càriti che il dio dell’aria tempestosa e del cielo sereno, Zeus, ha tratto (impregnandolo in gloria) dal ventre riccioluto del mare biancoazzurro: per farne -  di Afrodite, di quella sua ormai adottiva figlia - le sussurranti lingueggianti ancelle, esperte di. ogni adorabile vezzo e obnubilante trucco, di nebbie repentine o liete schiarite. E in fine, la vaporosa e la suasiva Péitho, la Persuasione occulta, mezzana e ruffiana, insinuante e fedifraga tentatrice: cauta nel rivelarsi, ratta a disparire. 
Non occorreva davvero che i Padri della Chiesa si inventassero un inverecondo Diavolo; che in combutta con le odiosamate e tutto sommato maldestre e sempliciotte Streghe, gli acerbi Inquisitori, obsedés, escogitassero lussuriosi decotti maligni e filtri forieri di sgangherate passioni; che il Marchese de Sade e i suoi cervellotici nipotini inalberassero stendardi di adolescenziale perversione, che ancora garriscono e imperversano stralunati e sbrindellati sull’eccitazione drogata e la morbosità permissiva di qualche pingue o emaciato epigono (o stanca videosquillo, multisex per noia); o che buon ultimo, Freud riaccendesse il lume di una pluriscontata libido, con la trovata/scoperta viennese dell’acqua calda, pansessuale: quando  dei barbagli d’oro, esultanti e accecanti, di Afrodite, Saffo già conosceva tutto ciò che da conoscere c’era. 
E per essere esatti, ventisei secoli prima di questa fine millennio, impettito e imbottito di coltissima ignoranza, tra ballante sul baratro scavato da orde intellettuali più o meno organiche e engagées: esimie per aver preso in ogni campo delle cosiddette scienze umane lucciole per lanterne, e frastornanti cantonate socio-psicologiche, storico-patologiche. Per non parlare degli utopici granchi che rossi o bianchi, neri o verdi, appena presi, le hanno attenagliate segnando le di malcelate, e pur quando sveltamente scancellate, perduranti, repellenti vesciche. 
Saffo sapeva e diceva, improvvisava le sue canzoni e fu dei primi che trascrivessero, armati di stilo, le parole fino allora “fatte d’aria”:e nel suo dire armonioso enunciava la primitiva e modernissima verità che ogni donna custodisce nelle viscere; e con lei, ogni uomo che abbia rinunciato a fregiarsi della propria tradizionale e fuorviante virilità di parata, dopo avere sperimentato quanto l’equivoco orgoglio lo dirottasse nelle deprimenti e tanto consimili secche della puritana castità o di una ubriaca fregola da osteria. Ciechi, vicoli ciechi. Saffo sapeva e diceva, con la grandezza in più, chiara e elementare, del primo poeta che abbia tradotto l’amore vissuto — fino allo smemorante orgasmo, fino alla feccia della disperazione — in parole. Da cui vennero e sono venute, germinando qua e là nello spazio e nel tempo, le altre sole che vediamo - pepite luminose in un magma di fango - valere e contare. Renderle omaggio (alla donna amorosa e allo schietto poeta) era lo scopo umile di chi si sapeva sicuro d’avere intuita e raccolta l’eco della sua primizia e primizia, nel sospetto. che molto del resto non fosse che superflua letteratura. Ma al di là della modestia dell’esito di ogni innamorato sforzo, ora dico (in prima persona) che mi sembra non si possa parlare di Saffo senza avere ben chiaro “cosa” fosse per lei “Afrodite premessa necessaria anche per leggere di lei, o per tentare di decodificarne i superstiti e malconci frammenti; per scorgere almeno una traccia d’esitante ma viva vita in ogni temerario specchio che si azzardi a riflettere anche solo una fantasticata ombra del suo strabiliante, passionale e dolente, transitare sul nostro pianeta. Che rotola nel vuoto nero del tutto o del nulla: ma le sole vere scintille di cui s’accende e spegne, sono d’amore. 
                                      
                                                                                                  Grytzko Mascioni


Navigando, l’estate 1991, 
sulla m/rn « Repubblica di Venezia » 


Dall’introduzione a
Saffo di Lesbo
Donna d’amore e poesia